Praticare la bontà fa bene al cervello e lo modifica

Praticare la bontà fa bene al cervello e lo modifica

Ultimo aggiornamento: 30 settembre, 2016

Nessun atto di bontà, per quanto piccolo sia, sarà mai una perdita di tempo. Sono questi gesti colmi di affetto e riconoscenza a racchiudere la saggezza più autentica, quella che fa bene al nostro cervello e ci permette di entrare in connessione con gli altri con integrità e nobiltà.

Può sembrare curioso, ma Charles Darwin a suo tempo già parlava dell’importanza della bontà nell’uomo. Secondo questi, essa rappresenta in realtà il nostro istinto più forte e di valore, il fattore che determinerebbe la sopravvivenza non solo della razza umana, ma dell’intera popolazione vivente. Eppure, la bontà non è praticata tanto come si dovrebbe.

Seminate tracce di bontà in ogni vostra azione, non esitate a farlo. Perché anche se gli altri non se ne renderanno conto, la vostra mente sarà sempre in sintonia con il vostro cuore.

La bontà occupa uno spazio molto preciso nel cervello: i suoi meccanismi neuronali coincidono con quelli dell’empatia. Se quest’ultima serve ad individuare una necessità, la bontà serve a tradurre tale sensazione in un atto spontaneo e profondo volto a fare del bene, per donare benessere e aiuto.

Questo eccezionale meccanismo del nostro cervello ha uno scopo ben preciso: darci a intendere che siamo molto più forti quando entriamo in connessione gli uni con gli altri piuttosto che restando da soli. Si tratta di un punto di vista interessante che oggi approfondiremo insieme a voi.

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Siamo “programmati” per praticare la bontà

Jerome Kagan è un noto professore di psicologia ad Harvard che sostiene l’idea che il nostro cervello sia programmato per praticare la bontà. Si tratterebbe, dunque, di una predisposizione biologica, la stessa di cui trattò Charles Darwin a suo tempo, secondo cui l’amore, la compassione o le attenzioni assumono uno scopo concreto: permetterci di sopravvivere come specie.

Tuttavia, nonostante il nostro cervello abbia di natura una simile inclinazione, non significa che l’uomo tenda per natura o soprattutto verso la bontà. Il nostro cervello comprende tante altre tendenze biologiche altrettanto importanti, ciascuna delle quali ha la capacità di influenzare il nostro comportamento – proprio come la rabbia, la gelosia e, naturalmente, la violenza.

Da parte sua, Daniel Goleman ci ricorda che l’emozione più intensa per il nostro cervello è la compassione. Quando la pratichiamo, l’intero sistema limbico riverbera molteplici connessioni. È così che si liberano anche agenti neurochimici come l’ossitocina, generando un’improvvisa melodia di emozioni positive in cui l’empatia, la reciprocità o il desiderio espresso di fare del bene, ci nobilita ancor di più come specie.

È una cosa  meravigliosa che vale la pena mettere in pratica.

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Secondo questi esperti di emozioni umane, la bontà è un istinto ereditato dai nostri antenati e che insegnava loro che in un mondo ostile non sopravvive il più forte, bensì colui che poteva contare su una più grande rete di sostegno.

Da qui deriva la nostra capacità di “contagiare” agli altri le nostre emozioni; i nostri neuroni specchio ci consentono di individuare la paura negli altri per prevenire, così, un rischio, comprendendo che aiutare il prossimo è un modo di investire su se stessi, così che in futuro possiamo ricevere lo stesso aiuto nel momento del bisogno.

Allenare la compassione per curare la nostra salute mentale

David Keltner, professore nell’Università di Berkeley, Stati Uniti, e direttore del “Centro per la ricerca sulla bontà”, ci spiega che i valori su cui la società moderna si struttura demoliscono totalmente la nostra naturale tendenza verso la compassione o la bontà.

Il denaro è di per sé un elemento che ci individualizza, ci segrega e ci costringe a competere fra di noi. Abbiamo perso la coesione del gruppo oltre al desiderio esplicito di garantire il bene dei nostri simili, poiché ci siamo ormai trasformati nei nemici gli uni degli altri.

Questo fenomeno è talmente evidente che, proprio come spiega il professor Keltner in libri quali “Born to be good”, le persone dalle più ampie ricchezze sono di norma quelle meno compassionevoli.

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La tecnica della meditazione compassionevole

È interessante scoprire che la compassione, così come la bontà, può essere appresa. Una volta consapevoli del fatto che ci siamo distanziati troppo dalla nostra essenza per navigare alla deriva nell’egoismo, nel materialismo o in una realtà priva di relazioni interpersonali autentiche, ecco che diventa necessario riflettere sulla necessità di cambiare.

Secondo uno studio pubblicato sulla rivista “Psychological Science”, attraverso la meditazione compassionevole gli adulti possono allenarsi a riattivare alcune aree del cervello assopite o semplicemente poco utilizzate.

  • La meditazione compassionevole è una tecnica buddista che si basa sulle visualizzazioni.
  • Si tratta, semplicemente, di immaginare situazioni personali attraverso cui ricordare una persona amata che ha vissuto un momento di difficoltà.
  • Bisogna rivivere quella sofferenza così da “accendere” determinate strutture emotive come il lobo insulare, porzione del cervello legata alla necessità di offrire consolazione e sostegno.
  • La visualizzazione ha inizio concentrandosi sulle persone più vicine, per poi ampliare pian piano la propria cerchia e i propri orizzonti, passando dagli amici, ai colleghi, ai vicini, a persone appena conosciute per poi arrivare ai perfetti sconosciuti.
  • L’idea di base è quella di provare empatia verso i bisogni altrui, verso il loro dolore e le loro paure, avvicinandosi a chi soffre, chiunque egli sia.
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Questo tipo di esercizio basato sulla meditazione, sul giusto controllo della respirazione e della profonda presa di consapevolezza delle proprie emozioni è volto a creare, secondo i neurologi, un’interessante plasticità cerebrale. Essa ci permetterebbe di alleviare lo stress, investire sul benessere e su quella ricchezza interiore capace di cambiare il mondo.

La bontà è l’unico investimento davvero infallibile.  


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