Non adattiamoci a ciò che non ci rende felici

Non adattiamoci a ciò che non ci rende felici

Ultimo aggiornamento: 12 aprile, 2017

A volte lo facciamo, ci adattiamo a ciò che non ci rende felici come se indossassimo un paio di scarpe del numero sbagliato e, dopo un po’, ci accorgiamo di non essere in grado di camminare, di correre, di volare… La felicità non fa male, dunque non deve opprimere né toglierci l’aria, ma deve permetterci di essere liberi, leggeri e padroni della nostra strada.

Qualche anno fa, una marca di saponi che commercializzava i suoi prodotti tra le aziende lanciò sul mercato una gamma di saponette con incisa la scritta “Happiness is Business”.

Il mondo preferisce la felicità alla saggezza.
Will Durant

Anche se concetti come quello di “flusso” di Mihaly Csikszentmihalyi sottolineano l’importanza di concentrarsi anima e corpo su un’attività per raggiungere la felicità, in questa equazione bisogna tenere conto se questa attività sia significativa o meno. Di fatto, molti lavoratori guardavano con triste ironia allo slogan dei saponi perché non tutti erano felici di svolgere un compito che, seppur remunerativo, non comportava un benessere psicologico.

Potremmo dire, quasi senza paura di sbagliare, che ci adattiamo quasi con forza alle routine quotidiane, pur essendo consapevoli che non ci rendono felici (riprendendo la metafora delle scarpe, ci fanno venire le vesciche). È come entrare in una ruota panoramica che non smette mai di girare. Il mondo, la vita continuano fuori, irrequieti, perfetti, inaccessibili, mentre noi restiamo prigionieri della nostra routine.

Ci adattiamo per sentirci sicuri

Da bambini, i nostri genitori ci legavano le scarpe facendo un doppio nodo, in questo modo non si slacciavano e noi non inciampavamo. Ci rimboccavano le coperte con affetto e, al momento di uscire, sollevavano il colletto di giacche e cappotti perché non prendessimo freddo.

Forse tutta questa pressione corporea a volte ci faceva sentire a disagio, ma avevamo la sensazione di essere al sicuro. Man mano che siamo diventati grandi e abbiamo acquisito responsabilità da adulti, quel bisogno di sentirci sicuri è rimasto. Tuttavia, quell’indefinibile pulsione che ci spinge a ricercare la sicurezza spesso condiziona i nostri comportamenti.

Per quanto possa sembrare curioso, la parte di noi più sensibile a questo bisogno è il cervello. Il cervello non ama i cambiamenti, i rischi né le minacce. È esso a sussurrarci: “Adattati anche se non sei felice, perché la sicurezza è garanzia di sopravvivenza”. Dobbiamo avere ben chiaro, però, che adattarsi non sempre va di pari passo con la felicità, tra i tanti motivi perché questo adattamento in realtà non si verifica.

C’è chi continua a portare avanti un rapporto di coppia anche se non c’è un amore reale, una vera complicità o la felicità stessa. L’importante, per alcuni, è scappare dalla solitudine e per questo si adattano anche ad un cuore che non corrisponde al loro.

Lo stesso capita a livello lavorativo. Sono tante le persone che scelgono di mostrare un “low profile”, ovvero un basso profilo. Persone docili, malleabili, che sminuiscono meriti e titoli di studio quando redigono il curriculum perché sanno che è l’unico modo per adattarsi a determinate gerarchie d’impresa.

È come se nella loro mente passasse uno slogan registrato, come quello della marca di saponi citato all’inizio: “Adattarsi o morire, rinunciare per sopravvivere”.

Ora, davvero vale la pena morire di infelicità?

Per essere felici, bisogna prendere decisioni

Anche se il cervello resiste ai cambiamenti e ci invita elegantemente a rimanere nella nostra zona di comfort, è geneticamente programmato per affrontare le sfide e per sopravvivere. Di fatto, c’è un dato molto interessante in merito che invita a riflettere.

La felicità è interiore, non esteriore, infatti non dipende da ciò che abbiamo, ma da quello che siamo.
Pablo Neruda

I ricercatori Richard Herrnstein e Charles Murray qualche tempo fa hanno definito il concetto di “Effetto Flynn”. Si è osservato che, anno dopo anno, il punteggio del quoziente intellettivo sale. Tra i tanti fattori, questo dipende anche dal fatto che la vita moderna è sempre più piena di stimoli: abbiamo facile accesso alle informazioni, interagiamo di più e i nostri figli elaborano sempre più velocemente le informazioni, tutti stimoli legati alle nuove tecnologie.

Un aspetto essenziale di cui psicologi, psichiatri, sociologi e antropologi sono consapevoli è che un QI elevato non sempre è accompagnato dalla felicità. Sembra che disporre di un’intricata e forte trama neuronale non sempre sia sinonimo di benessere psicologico. È strano e sconcertante allo stesso tempo.

Cosa sta succedendo allora? Ci siamo adattati ad una società dell’informazione, ma allo stesso tempo restiamo rinchiusi nella nostra zona di comfort come chi guarda la vita passare davanti si propri occhi, inventando un surrogato di felicità, qualcosa di temporaneo che causa stress e ansia.

Forse abbiamo dimenticato che per essere felici bisogna prendere decisioni, bisogna liberarsi delle scarpe del numero sbagliato e correre il rischio di camminare scalzi. Abbiamo scordato che l’amore non deve per forza fare male, che essere docili sul lavoro non sempre porta buoni frutti e che a volte dobbiamo sfidare chi ci sottomette e uscire dalla porta principale per creare la nostra strada.

Che ne dite di cominciare oggi stesso?

Immagini per gentile concessione di Ottdim y Hcojiscom


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