Vorrei urlare e sfogare quello che ho taciuto finora

Vorrei urlare e sfogare quello che ho taciuto finora

Ultimo aggiornamento: 17 gennaio, 2017

A volte vorremmo correre come lupi e raggiungere la montagna più alta per ululare alla luna quello che abbiamo taciuto, nascosto e mai detto ad alta voce. Forse succederà prima del previsto, quando l’indecisione, le apparenze e la paura dell’opinione altrui saranno solo una nebbia da cui scappare.

Viviamo in una cultura che punta a reprimere le emozioni, lo sappiamo tutti. Quando un bambino compie cinque anni, inizia a sviluppare certi meccanismi di repressione: trattiene le lacrime, si guarda bene dal dire certe parole e abbassa il viso, soddisfacendo, così, quei dettami ormai abituali del mondo degli adulti, “non piangere”, “non parlare”, “non esprimerti”.

Apprendere fin da piccoli la cultura delle “emozioni prigioniere” ha ovviamente delle conseguenze. Si arriva all’età adulta come schiavi del silenzio e delle verità nascoste. Spesso il bambino che impara a nascondere le emozioni finisce per trovare altri canali attraverso cui esprimere ciò che nasconde, da cui spesso emergono costante aggressività, rabbia e sfida.

Sigmund Freud diceva che la mente è come un iceberg. Solamente la settima parte emerge dall’acqua, il resto rimane nascosto, immerso in un universo gelato dove conserviamo le emozioni represse e le parole riservate al silenzio per paura delle conseguenze nell’ambito della sfera pubblica.

Vi invitiamo a riflettere sull’argomento.

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Siamo funamboli su un filo instabile

Di sicuro in diverse occasioni quando ci hanno chiesto: “È successo qualcosa? Hai una brutta cera”, abbiamo risposto frettolosamente: “No, no. Sto bene. Va tutto bene”. Con questa frase battiamo in ritirata per tempo ricorrendo ad un formalismo comune che tutti mettono in pratica, quello delle false apparenze. Perché a nessuno importa che i nostri pezzi si sorreggano su un filo instabile, perché capiamo che il dolore emotivo è privato.

Il vero problema, però, dipende spesso dalla nostra incapacità di sfogarci davanti alle persone che per noi sono davvero importanti. Non lo facciamo perché siamo convinti che “esibire” il dolore, il fastidio o i timori significhi perdere il nostro potere personale.

In qualche modo, rivelare al partner o ad un familiare che non siamo felici, per via di determinate circostanze o per un fatto in particolare, ci fa sviluppare una sorta di “codipendenza”. Vale a dire, ci sentiamo più responsabili di come reagiscono gli altri di fronte ad un fatto concreto che non delle circostanze in cui ci troviamo.

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Attribuire maggiore valore alla possibile reazione altrui che non al problema di base ci spinge a lasciare le cose così come sono. Siamo rimasti in silenzio per tanto tempo, dunque resistere ancora un po’ non fa differenza. Normalizziamo la sofferenza come chi assume un semplice analgesico per una ferita traumatica o come chi offre acqua a chi sta annegando.

Non è la cosa più conveniente da fare. Nessuno è un eterno funambolo che cammina sulle sue corde instabili, perché prima o poi quelle corde si spezzeranno e la caduta sarà inevitabile. Logicamente, più in alto si è arrivati seguendo questa dinamica, più forte sarà l’urto e anche le sue conseguenze.

Siamo ciò che abbiamo taciuto, ma meritiamo di essere liberi

Questo dato è curioso e vale la pena ricordarlo: quando qualcosa non ci piace, ci ferisce o ci dà fastidio, come una parola di disprezzo, il cervello impiega appena 100 millisecondi per reagire emotivamente. Poi, in soli 600 millisecondi, registra quell’emozione nella corteccia cerebrale.

Quando diremo a noi stessi: “Non mi tocca quello che ho sentito, continuerò a comportarmi come se non me ne importasse”, sarà ormai tardi, perché i nostri meccanismi cerebrali hanno già codificato quell’impatto emotivo. Cercare di registrarlo in altro modo significa ingannare noi stessi, sprecare energia inutilmente e perdere risorse che dovremmo investire in altre strategie.

Ci hanno insegnato a lungo che mostrare le nostre vere emozioni non è un bene, che chi dice la verità è aggressivo e che sarà sempre meglio una piccola bugia che un’amara verità detta ad alta voce. Non è vero. Si può essere assertivi senza essere aggressivi. C’è di più, sarebbe bene cominciare a cambiare la classica idea che oppone l’emozione alla ragione, perché è comunque sbagliata.

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Permetterci di provare a pieno i sentimenti spesso ci aiuta a capire quali sono i nostri bisogni. Fa luce su molti vuoti di pensiero che spesso riempiamo di false idee: “Se resisto ancora un po’, le cose possono migliorare”, “Di sicuro non pensava davvero quello che ha detto, meglio se mi comporto come se niente fosse”. Capire, ascoltare e sentire completamente le nostre emozioni è una necessità vitale da soddisfare ogni giorno.

Dobbiamo imparare l’arte dell’assertività, quel sano esercizio “io sento, io merito”. Dobbiamo ululare alla luna, alla notte e al giorno tutto ciò che siamo, che meritiamo e che valiamo. Basta dare importanza e priorità alle emozioni degli altri. È il momento di vivere senza paura.


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