Edward Hopper, pittura tra solitudine e attesa

Edward Hopper era il pittore della solitudine e dell'attesa perenne. Nelle sue opere abbondano personaggi femminili avvolti nel mistero, volti catturati mentre aspettano qualcosa che non arriva mai. Dietro queste pennellate si nasconde un universo psicologico che vale la pena di scoprire.
Edward Hopper, pittura tra solitudine e attesa
Valeria Sabater

Scritto e verificato la psicologa Valeria Sabater.

Ultimo aggiornamento: 15 novembre, 2021

Nei quadri di Edward Hopper il tempo non passa mai. Sembra essersi fermato, congelato in una perenne attesa in cui i volti femminili attendono con pazienza, avvolti in un’aura enigmatica.

Figure immerse nella quiete che attendono in camere di hotel, al bar, alla stazione… La solitudine e il mistero sono evidenti in tutti i suoi dipinti grazie a quelle scene, a quei colori e a quell’atmosfera inquietante.

L’arte e la psicologia vanno da sempre a braccetto e le opere di Hopper non sono da meno. In ciascuna di esse riconosciamo qualcosa di più dell’esempio più interessante dello stile modernista del ritratto americano.

Nelle sue pennellate si nascondono enigmi e storie misteriose; le stesse che portarono Alfred Hitchcock a rappresentare molti quadri di Hopper nei suoi film. Un esempio è la celebre casa di Psycho, copia perfetta del quadro di Hopper House by the Railroad.

Osservando alcuni dei più famosi dipinti di Edward Hopper noteremo elementi comuni. Per esempio, non importa che i protagonisti siano in caffetteria o al ristorante: non c’è mai da mangiare sui tavoli.

La storica dell’arte Judith A. Barter spiega che il pittore e sua moglie, anche lei artista, mangiavano sempre cibi in scatola e che pur non essendo poveri avevano scelto uno stile di vita tanto austero quanto asfissiante. Ed è facilmente percepibile dai quadri.

Nelle sue tele, Hopper mette in scena anche il ruolo in evoluzione della donna nella società americana dei primi anni del XX secolo. Le figure femminili sono rappresentate mentre lavorano, mentre bevono qualcosa a fine giornata in una caffetteria, mentre si recano al lavoro in treno.

Eppure, in tutti i quadri è sempre presente, sotto una pellicola sottile, la solitudine. Una solitudine che seduce, ma palpabile e, in fin dei conti, indissolubile. Riflesso, senza alcun dubbio, di una società che riusciva ad avanzare a stento.

Edward Hopper è stato l’artista per eccellenza della solitudine urbana e anche del fallimento delle persone.

Morning sun.

Edward Hopper e la psicologia insita nella sua pittura

Hopper è stato l’artista statunitense del periodo modernista, specializzato nel cosiddetto realismo americano. Il suo lavoro coincise con il periodo di maggiore splendore della psicanalisi in Europa.

Tra i suoi biografi c’è la storica Gail Levin, che nella sua opera su Edward Hopper: An Intimate Biography ci spiega che lo stesso artista sapeva che nella sua mente c’era qualcosa di distorto, ma anche che era questo squilibrio interiore a dargli l’impulso che guidava la sua mano quando dipingeva.

Amava trasmettere l’essenza della solitudine nascosta negli spazi comuni: bar, stazioni, treni e appartamenti.

Un eccellente esempio è il quadro Morning Sun, in cui lo spettatore acquisisce, quasi senza volere, la prospettiva di un voyeur che guarda quella donna seduta su un letto, nella sua stanza, con indosso una camicia da notte rosa mentre osserva l’alba dalla sua finestra.

Edward Hopper, così come Raymond Chandler, ci hanno lasciato la perfetta descrizione dell’essenza di quegli anni ’30 e ’40 negli Stati Uniti.

L’urbanizzazione, una società che prova a risvegliarsi dopo la recessione economica, il divario di classe e quella marcata solitudine che sembra andare sempre di pari passo con il progresso. Tutte queste dimensioni restavano spesso impresse sui volti e sulle figure femminili.

Donne che apparivano immerse in un perenne stato di attesa, nell’anticamera. Donne che forse pensavano alle loro aspettative deluse, ai sogni disattesi, alle persone che si erano lasciate alle spalle.

Dipinto di Edward Hopper.

Il mistero delle donne nei quadri di Edward Hopper

C’è un dettaglio che qualsiasi appassionato delle opere di Hopper avrà notato almeno una volta. Chi sono quelle donne che ritrae nei suoi quadri? La risposta è tanto interessante quanto illuminante. Tutti quei volti erano uno solo: quello di sua moglie, la pittrice Josephine Nivison.

Jo Nivison era più famosa e conosciuta di Edward Hopper. Era stata una donna di successo; una pittrice acclamata che aveva esposto le sue opere insieme a modelli di riferimento del calibro di Modigliani e di Pablo Picasso.

Ebbene, quando sposò il collega, si dedicò esclusivamente a lui: i due intrapresero una relazione tossica e co-dipendente, ma incredibilmente produttiva per Hopper.

Vivevano insieme all’ultimo piano di Washington Square, a New York. Non vivevano nel lusso né effettivamente che fosse così. L’unica cosa a cui erano interessati era quella stanza con una vista incredibile e straordinariamente luminosa.

Non appena uscivano da quelle quattro pareti, lui dipingeva, lei gli dava consigli, teneva nota della contabilità e organizzava i contatti con agenti e gallerie d’arte.

Come chiaramente detto nei diari di Jo Nivison, non tardarono ad arrivare episodi di violenza. Inoltre, Hopper era solito disprezzarla costantemente come artista, in modo che lei rinunciasse alla sua carriera.

La voleva solo per sé e anche lei lo voleva solo per sé. I due crearono un’atmosfera asfissiante, oltre che strana, che rimase chiaramente incisa anche nelle tele e nei disegni.

Il pittore dei confini

Il filosofo Alain de Botton definì in un’occasione Edward Hopper come il pittore dei limiti. Si specializzò, senza saperlo, in quell’arte in cui i personaggi restano intrappolati in scenari di passaggio: una stazione, un bar, una stazione di benzina, la camera di un hotel, un’ufficio.

Sono ambientazioni urbane, in cui le persone restano intrappolate nell’attesa, in quello sguardo introspettivo che brama, forse, qualcosa che non tornerà.

Hopper decise di lasciare all’arte l’essenza introspettiva di un’epoca. Lui stesso amava la solitudine, quell’isolamento volontario che aveva costruito intorno a sé e a sua moglie, uno in cui lei era il ponte tra lui e il mondo fuori. Jo Nivinson attraversava i confini per parlare con la stampa, lei, che organizzava vendite o mostre e lei, sua musa ispiratrice di una vita.

La ricchezza narrativa e ambigua delle pitture di Hopper era ormai senza tempo. Attrae sempre, spaventa sempre. L’architettura, i grattacieli, i saloni dell’hotel, le donne e i loro abiti, uomini di schiena e persino i tavoli vuoti.

Tutti elementi che costituiscono uno stato d’animo ben specifico, eterno e attraente: quello della solitudine e dell’attesa eterna.


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