A volte il miglior modo per aiutare è lasciar fare

A volte il miglior modo per aiutare è lasciar fare

Ultimo aggiornamento: 25 febbraio, 2017

Aiutare è un’azione che spesso sopravvalutiamo, perché pensiamo che implichi bontà, solidarietà, ospitalità, etc. Il problema è che molte volte non si tratta di una semplice collaborazione tra esseri umani con un obbiettivo comune, ma di un’azione che facciamo per ricoprire un ruolo che pensiamo che la persona che aiutiamo non sia in grado di fare o che farebbe in maniera troppo lenta o non arriverebbe al livello di perfezione che noi siamo capaci di raggiungere.

Potremmo denominare “aiuto tossico” quell’atteggiamento volto a voler risolvere i problemi delle altre persone senza dar loro la possibilità di superare le proprie sfide. Questo perché, oltre ad impedir loro di sviluppare le proprie capacità, trasmettiamo un chiaro messaggio: tu non ci riesci.

Agli occhi della società, aiutare sembra sempre positivo; tuttavia, se guardiamo oltre le apparenze, ci renderemo conto che molte persone sono prive di capacità per colpa del “buon samaritano” che ha voluto compiere al loro posto le loro sfide, anche se in realtà non avevano bisogno di aiuto.

Attualmente, vengono denominate “generazione debole” tutte quelle persone troppo protette dai propri genitori, a tal punto che questi fanno loro i compiti, risolvono qualsiasi loro problema sociale ed eliminano qualsiasi possibile contatto con la frustrazione.

Un aiuto che non aiuta nessuno

Fare le cose per gli altri è positivo solo quando si verifica una collaborazione o una cooperazione. Ad esempio, se due persone hanno l’obbiettivo comune di metter su un azienda insieme, è bene che collaborino: uno sceglie i mobili per l’azienda, mentre l’altro si occupa della pubblicità, ecc.

 
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Tuttavia, aiutare qualcuno in modo unidirezionale può rivelarsi rischioso, perché annulla le capacità della persona che viene aiutata. Inoltre, potrebbe alimentare false convinzioni nella persona che riceve aiuto, ad esempio:

  • Pensare che aveva davvero bisogno di quell’aiuto.
  • Credere che l’altra persona ha l’obbligo di aiutarla.
  • Credere di essere importante per la persona che l’aiuta.

Nessuna delle due parti, dunque, trarrà beneficio da tale comportamento. Una perché riceve il messaggio che senza l’altra persona non può risolvere i problemi, e questo è un colpo mortale all’autostima; l’altra perché semina il seme dell’ansia, credendo di non poter mai negarsi ad aiutare l’altra persona o perché crede che l’altra, senza il suo aiuto, non può andare avanti.

Genitori elicottero

Questa idea è evidente in alcune famiglie nelle quali esiste la figura dei genitori elicottero, ovvero genitori tossici o eccessivamente protettivi. Questi genitori non sopportano l’idea che i loro figli soffrano, perché il loro concetto di sofferenza è sbagliato.

Di solito si tratta di genitori che hanno vissuto male la loro infanzia e che non desiderano che i propri figli facciano lo stesso. Quindi, polarizzano l’educazione che impartiscono all’estremo assoluto: risolvono tutti i problemi dei propri figli, anche quelli in cui i pargoli potrebbero cavarsela da soli, perché possiedono le capacità per farlo; e la storia va avanti così, fino a quando questi raggiungono un’età in cui dovrebbero essere in grado di condurre una vita autonoma.

 
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Lo sviluppo del bambino ristagna, quando in realtà dovrebbe esplodere. Arrivati all’età adulta, diventano persone non risolutive. Persone che, inoltre, soffrono di problemi di autostima: dicono a se stesse di non essere in grado di affrontare i problemi senza l’aiuto altrui.

Si trasformano in persone che hanno sempre bisogno di aiuto, in qualsiasi aspetto della loro vita. Scelgono, dunque, un partner che si comporti come facevano i loro genitori, quindi le loro abilità continueranno a non svilupparsi.

Qual è l’aiuto che aiuta davvero?

Se davvero vogliamo aiutare, o per meglio dire, collaborare con qualcuno, dobbiamo avere come obbiettivo lo sviluppo e l’acquisizione da parte della persona “aiutata” della fiducia in se stessa. Dovremo, quindi, aiutarla ad alimentare la propria autostima, ricordandole ciò che ha fatto bene e favorire la risoluzione dei problemi mostrandole le varie possibilità che ha per risolverli e comparandoli ad altri analoghi, in modo da far emergere le abilità di questa.

Se decidiamo di risolvere i problemi della persona che non vogliamo veder soffrire, non le permetteremo di superare gli ostacoli da sola. Non avrà bisogno di agire, non sbaglierà, non cercherà delle alternative, ecc., perché lo staremo facendo noi al posto suo.

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Ad esempio, se nostro figlio non trova lavoro, ma tutti i mesi gli diamo dei soldi che gli permettono di vivere da solo, perché dovrebbe impegnarsi per trovare un impiego? Non ne ha bisogno! Questo comportamento, inoltre, causa un inconveniente non di poca importanza… Se continuiamo ad agire così, cosa ne sarà di lui quando, un domani, non saremo più a questo mondo per aiutarlo?

Collaborare in questo caso significa aiutarlo a preparare un curriculum, a scegliere una professione, a cercare un lavoro, in modo da fargli capire che è lui il protagonista della sua vita. Non credete?


Questo testo è fornito solo a scopo informativo e non sostituisce la consultazione con un professionista. In caso di dubbi, consulta il tuo specialista.