Il silenzio è il miglior complice dell'aggressore

Il silenzio è il miglior complice dell'aggressore

Ultimo aggiornamento: 16 settembre, 2016

Il silenzio sarà sempre il miglior complice dell’aggressore. È in esso che si trova il suo miglior rifugio, dove trovano riparo tutte le aggressioni umilianti e le botte che, poi, vengono dissimulate con il trucco e con un “Ti prometto che non accadrà più”.

La mente di un aggressore è recidiva e le sue promesse si trasformano in fumo quando intuisce un nuovo “sgarbo”, quando viene contraddetto o quando sente il bisogno di affermare il suo potere. Il maltrattatore, infatti, soffre di insicurezza cronica e cerca di trovare la sua forza nei valori più maschilisti. 

Virgina Woolf nei suoi diari diceva che poche cose possono essere pericolose come una casa, come un focolare. Dal momento in cui si chiudono le porte, le finestre e le tende, nessuno può intuire quello che accade: i drammi, le aggressioni e quel dolore che resta impregnato nelle pareti e nei cuori, nei cuscini zuppi di lacrime versate da tutte le menti ferite.

Il silenzio è e sarà sempre il miglior rifugio per chi aggredisce, per chi maltratta. È necessario romperlo e dare voce a tutte le vittime.

donna che levita

Gli alleati dell’aggressore

Parliamo di un fatto di attualità. I festeggiamenti di San Firmino di quest’anno a Pamplona, Spagna, hanno messo in evidenza una dura realtà che si è sempre verificata: le violenze sessuali. Nel corso della sua storia, questa festività ha nascosto un fatto a volte silenziato e non sempre denunciato da parte delle vittime: le molestie, i palpamenti e le violenze.

Nel 2008, una giovane infermiera fu aggredita fino alla morte. Quest’anno in sei giorni di festività sono state quattro le violenze denunciate. Il mondo sembra finalmente “aprire gli occhi” dinanzi a questi fatti grazie a tutte le campagne di sensibilizzazione, alla pressione dei mezzi di comunicazione e alle reti sociali. Il silenzio non protegge più gli aggressori ed essi non trovano più nella paura un alleato dietro al quale restare immuni.

La violenza nascosta, aggredire una donna nell’androne oppure nella casa in cui si vive insieme, è la più comune nella nostra società. Lo è a tal punto che secondo uno studio realizzato dalle Nazioni Unite, si stima che il 35% delle donne di tutto il mondo sia stato maltrattato e che quasi il 70% abbia subito un’aggressione almeno una volta nella vita. Sono dati su cui riflettere.

La responsabilità comune di rompere il silenzio

L’aggressore può avere studi ed un’eccellente posizione sociale. Può essere disoccupato, giovane, di età avanzata e, di certo, può anche essere donna. I modelli sociologici di solito non sono di grande aiuto agli esperti per identificare un aggressore, inoltre si tiene conto di un aspetto essenziale: il maltrattatore spesso gode di una buona considerazione sociale, di fatto per gli altri è una “brava persona”.

Il problema giunge quando, come segnalava Virginia Wolf, si chiudono le porte di casa e nessuno o quasi nessuno sa cosa succede. Chi usa la violenza la esprime solo nei confronti di chi ha un vincolo affettivo molto intimo con lui/lei: il partner, i figli…

uomo che piange

Il maltrattatore usa l’aggressione come forma di potere. È incapace di concepire il partner come una persona con diritti o necessità che meritano di essere rispettati perché è “un oggetto personale”, parte di se stesso. Dinanzi a qualsiasi tentativo di indipendenza, si sentono aggrediti perché viene minata la loro mascolinità, il loro status di potere.

Il partner sceglie, allora, di cedere, di non parlare e di cadere in una relazione subordinata in cui il maltrattamento psicologico e, a volte, fisico creano segni e ferite non sempre visibili a prima vista. Denunciare per uscire da questo silenzio non è facile, perché, ci crediamo o no, la vittima non sempre si sente compresa.

  • In molti casi deve affrontare una cerchia più prossima in cui familiari e amici non credono ai maltrattamenti e alle aggressioni che, nonostante non lascino segni, stanno togliendo la vita della vittima.
  • I servizi sociali e i centri di assistenza alle vittime, dal canto loro, sanno che molte persone temono di formalizzare la denuncia per paura di “possibili rappresaglie” da parte dell’aggressore.
colibrì fuori dalla gabbia con cuore che pende dal becco

Senza dubbio sono situazioni molto delicate in cui la paura di rompere il silenzio continua ad essere il miglior complice dell’aggressore. Il suo miglior rifugio e il suo scudo di potere. È responsabilità di tutti cambiare l’approccio e salvare le vittime da questi spazi privati di tortura ed umiliazione.

Nessuna vittima deve sentirsi sola, tutti abbiamo uno spazio nel puzzle della nostra società da cui poter denunciare, dare voce ed essere recettivi dinanzi a qualsiasi condotta sospetta in cui una donna, un uomo o un bambino possano ricevere qualche forma di maltrattamento.

Abbiate coraggio, rompete il silenzio.


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