Impronte digitali del cervello: cosa sono?

Siamo unici e la nostra unicità imprime delle vere e proprie impronte digitali nel cervello. Perché ogni pensiero, ogni esperienza vissuta, sensazione e cosa immaginata traccia una particolare firma neurologica nel nostro cervello.
Impronte digitali del cervello: cosa sono?
Valeria Sabater

Scritto e verificato la psicologa Valeria Sabater.

Ultimo aggiornamento: 15 novembre, 2021

Siamo fatti di cellule, tessuti, un cuore che batte e una pelle esterna che ci protegge, ma anche di ricordi. Le esperienze vissute tracciano le impronte digitali del cervello; a tal punto che non ci sono due cervelli esattamente uguali. Ognuno di noi è unico ed eccezionale.

Potremmo dire che la nostra vita non emerge solo in ogni cosa che viene vissuta. Il modo in cui ricordiamo ognuna di queste esperienze definisce chi siamo davvero. Viviamo nel nostro Io plasmato dai ricordi, da ogni cosa percepita e dal modo in cui la interpretiamo, per poi immagazzinarla nel vasto scrigno della nostra memoria.

Questo processo tanto speciale, complesso e trascendentale ci rende tutti così diversi. È certo pur vero che l’organizzazione e la struttura del cervello sono universali. Tuttavia, a livello profondo e soprattutto per quanto riguarda il modo in cui è organizzato e le connessioni che crea, si tratta di firme neurologiche uniche e irripetibili per ognuno di noi.

Impronte digitali del cervello.

Cosa sono le impronte digitali del cervello?

Nonostante le neuroscienze ci diano sempre più risposte e informazioni sul cervello, si nutrono ancora grandi dubbi nei confronti di questo organo. A tal punto che solleva quasi gli stessi misteri dell’universo. Non sappiamo ancora, per esempio, come ripristinare o rimediare alla memoria perduta di un malato di Alzheimer.

Sappiamo come intervenire nel caso di una gamba rotta, ma non sappiamo come recuperare completamente le funzionalità di un paziente che ha subito un grave trauma cranico o come agire con un bambino con un grave disturbo dello spettro autistico. Ci limitiamo a facilitare la loro qualità di vita, a riabilitarli quanto più possibile, ma senza facilitarne la normalità totale e assoluta.

Nonostante ciò, si stanno facendo continui progressi e la speranza di raggiungere questo obiettivo è palpabile. Solo pochi giorni fa, l’Università di Rochester a New York ha fatto un grande passo in avanti nella comprensione dei segreti che sono annidati nel nostro cervello. Sappiamo, infatti, che ognuno di noi ha le proprie firme neurologiche e che in esse risiede la nostra identità.

Le reti cerebrali che modellano i ricordi e le sensazioni creano le nostre impronte digitali del cervello

Lo studio di ricerca, guidato dal Dottor Andrew James dell’Università di Rochester, è stato pubblicato a novembre 2020 sulla rivista scientifica Nature Communications. Lo studio rivela quanto segue:

  • Ogni persona costruisce i propri ricordi, utilizzando aree cerebrali specifiche. Tuttavia, il cervello crea reti, ovvero diverse connessioni neurali in funzione del modo in cui integriamo ogni ricordo.
  • Per esempio, ogni esperienza e sensazione è filtrata anche da un universo emotivo. A volte le immagini o esperienze del passato sono avvolte da emozioni concrete (i colori, gli odori).
  • Tutto questo crea distinte firme neurologiche. Ogni esperienza forma delle reti di organizzazione del cervello che creano una specie di impronta digitale (o impronta del cervello) unica per ogni individuo.

Alla scoperta di come ognuno di noi organizza i propri ricordi

Una delle sfide che le neuroscienze devono affrontare adesso è quella di ottenere ulteriori informazioni sulle impronte digitali del cervello. Qui entra in gioco anche la scienza cognitiva, che cerca di scoprire come organizziamo e manipoliamo i ricordi. Ma a quale scopo può servire tutto questo?

  • Tramite le risonanze magnetiche abbiamo già potuto osservare in che modo l’attività cerebrale di ogni persona è in grado di organizzare i propri ricordi.
  • Essere in grado di identificare queste “impronte digitali” ci permetterebbe di avere un profilo neurologico di ogni persona, come una sorta di carta d’identità del cervello.
  • Con l’età, molte di queste impronte digitali svaniscono. Le malattie neurodegenerative come l’Alzheimer agiscono come veri e propri gomme da cancellare, come diluenti delle nostre firme neurologiche esperienziali.
  • Conoscere in che modo il cervello di ogni persona è connesso e organizzato ci permetterebbe in futuro di sviluppare dei farmaci in grado di salvaguardare l’architettura originale.
  • Inoltre, le impronte digitali del cervello ci permetterebbero di formulare diagnosi più veloci, dalla demenza alla schizofrenia e persino la depressione grave. Grazie a ciò, in futuro sarà più facile sviluppare terapie più efficaci e personalizzate.
Uomo anziano che legge.

Le impronte digitali del cervello e l’importanza di creare nuovi ricordi

La memoria non è una videocamera che registra e memorizza ogni avvenimento con un fotogramma perfetto. È un processo attivo in cui interagiscono molteplici fattori: personalità, stato d’animo, esperienze. Ognuno di noi lo fa in modo diverso e questo plasma il nostro cervello quotidianamente.

Niente è così fondamentale per il benessere psicologico quanto continuare a depositare ricordi, continuare a sperimentare. In ogni esperienza, apprendimento, conversazione intrattenuta, libro letto o viaggio fatto, si creano nuove impronte nel cervello, nuove “firme” o connessioni nervose che migliorano la struttura cerebrale.

Tutto questo ha un impatto sulla riserva cognitiva, sull’agilità mentale, sulla capacità di preservare il nostro Io autentico con il passare degli anni e l’avanzare dell’età. Sperimentare e imparare sono sinonimi di vivere meglio. Orientare la nostra esistenza verso l’attività fisica e, soprattutto, mentale, mantenendoci curiosi e desiderosi di interagire con il nostro ambiente è una garanzia di felicità.


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  • Andrew James Anderson, Kelsey McDermott, Brian Rooks, Kathi L. Heffner, David Dodell-Feder, Feng V. Lin. Decoding individual identity from brain activity elicited in imagining common experiences. Nature Communications, 2020; 11 (1) DOI: 10.1038/s41467-020-19630-y

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