Karoshi: la morte per superlavoro

La reputazione di lavoratori indefessi perseguita con ossessione dai giapponesi non è un mito. Molti impiegati si sentono in colpa quando vanno in ferie per aver abbandonato la propria azienda, temendo di essere percepiti come «quelli che si riposano lasciando fare agli altri il loro lavoro».
Karoshi: la morte per superlavoro
Cristina Roda Rivera

Scritto e verificato la psicologa Cristina Roda Rivera.

Ultimo aggiornamento: 13 febbraio, 2023

Il giorno di Natale del 2015, Matsuri Takahashi, una donna di 24 anni, si è gettata dalla finestra del suo appartamento. Era stata assunta da Dentsu, gigante della pubblicità globale, nell’aprile dello stesso anno. L’ennesima vittima del karoshi, la “morte per eccesso di lavoro”, riconosciuto dalle autorità giapponesi come incidente sul lavoro dal 1989.

Sul suo account Twitter, Matsuri scrisse che dormiva solo “due ore a notte” e che lavorava 20 ore al giorno. Scrisse anche: «i miei occhi sono stanchi e il mio cuore è spento» o «penso che sarei più felice se mi uccidessi ora».

Sebbene questi casi drammatici ci appaiano in qualche modo distanti e tipici di altre culture, il karoshi non è altro che un brutale riflesso di quanto possa spingersi oltre la mentalità capitalista, che mescola la meritocrazia con la competizione più estenuante per essere (o apparire)/ farci essere (apparire) più degni di occupare un posto in questo mondo.

Karoshi: il lavoro in Giappone è una questione d’onore

Un impiegato giapponese lavora in media 2.070 ore all’anno. Il superlavoro è causa di morte di circa 200 persone all’anno, per infarto, ictus o suicidio. Si rilevano anche diversi gravi problemi di salute derivanti dal lavoro senza sosta.

Questa concezione del lavoro è una delle eredità dell’età d’oro dell’economia giapponese degli anni ’80. Hideo Hasegawa, professore universitario ed ex dirigente di Toshiba, la esprime alla perfezione: «Quando sei responsabile di un progetto, devi portarlo a compimento a qualsiasi condizione. Non importa quante ore devi lavorare. Altrimenti, non è professionale».

Negli anni ’80, la pubblicità giapponese esaltava l’abnegazione dei dipendenti con un motto: “Sei pronto a combattere per 24 ore al giorno?”

Dipendenti in uniforme

La reputazione di lavoratori indefessi perseguita con ossessione dai giapponesi non è un mito. Molti impiegati si sentono in colpa quando vanno in ferie per aver abbandonato la propria azienda, temendo di essere percepiti come «quelli che si riposano lasciando fare agli altri il loro lavoro».

Alcuni lavoratori evitano di tornare a casa troppo presto per paura di ciò che possono pensare i vicini o i parenti sulla loro presunta mancanza di serietà. Inoltre, si tende a uscire con i colleghi per promuovere la cultura aziendale. Tuttavia, questo duro lavoro non è poi così redditizio. La produttività giapponese, di fatto, è spesso definita bassa dagli osservatori esterni che vedono in questo parte della scarsa competitività delle società dell’arcipelago.

A lungo termine questo modo di lavorare non solo non risulta competitivo in termini commerciali, ma rappresenta anche un rischio per la salute della popolazione, potendo causare il collasso delle risorse mediche. La depressione e il suicidio rappresentano già le principali sfide da affrontare per una società ossessionata dall’accumulo di straordinari.

Come fa una persona ad arrivare al karoshi?

Il problema è che il burnout permane come un “concetto vago” che, per il momento, non compare in nessuna delle principali classificazioni internazionali dei disturbi mentali. Un individuo può essere ricoverato per diversi sintomi legati al burnout: estrema stanchezza, esaurimento nervoso o depersonalizzazione con insensibilità verso gli altri, senza che tali sintomi riportino a un quadro clinico di karoshi.

Non esiste una diagnosi chiara per questi sintomi né dei parametri atti a stabilire se si è raggiunto un limite oltre il quale il lavoro rappresenta un rischio per la salute. Questa mancanza di consapevolezza sulla salute mentale, le pratiche professionali sempre più abusive e un mercato del lavoro trasformato dalla tecnologia inducono a superare tutti i limiti della dedizione al lavoro.

La paura della disoccupazione e di rimanere fuori dal sistema porta le persone a credere che lavorare a qualsiasi ora sia una valida alternativa, quando in realtà le capacità cognitive si riducono e le conseguenze per la salute possono divenire irreversibili; e con il rischio sempre maggiore di cadere nelle dipendenze di ogni tipo.

Il Karoshi, pertanto, somiglia a uno «stress cronico» insopportabile, per cui il soggetto non è più capace di resistere e cade in depressione. Il termine burnout, tuttavia, è socialmente più accettato, in quanto l’esaurimento estremo è considerato quasi un “titolo d’onore”, mentre la depressione è chiaramente meno “onorevole”: è percepita come una forma di debolezza.

Ma questo fenomeno non è limitato al Giappone. Gli americani gli hanno persino dato un nome: workalcoholism. In Italia, gli studi in questione sono ancora pochi, pertanto non è possibile fornire una stima certa. In Svizzera, invece, una persona attiva su sette ammette di aver ricevuto una diagnosi di depressione.

Donna stressata al lavoro

Misure per combattere il karoshi

Per combattere tale fenomeno, bisogna cambiare mentalità. Per cominciare, gli imprenditori giapponesi devono abbandonare la falsa idea che i lunghi turni di lavoro siano fondamentali. Dovrebbero imparare da paesi europei come Germania, Francia o Svezia e passare a un modello imprenditoriale che promuova giornate di lavoro più brevi.

Il governo giapponese sta già agendo attraverso riforme legali e una supervisione amministrativa più scrupolosa, usando correttamente l’autorità dello stato per porre fine agli estenuanti turni di lavoro. Ha approvato una riforma che consente alle aziende di non assegnare straordinari a lavoratori che guadagnano più di 80.000 euro all’anno, nonché più soggetti all’esaurimento.

Lo stato intende anche imporre un minimo di 5 giorni di ferie ai dipendenti giapponesi per contrastare i danni del superlavoro sulla salute e sulla produttività aziendale. Nella Terra del Sol Levante, i lavoratori con almeno sei anni e mezzo di anzianità godono di 20 giorni di ferie retribuite all’anno. Tuttavia, ne usano meno della metà.

La nuova legge non è applicabile ai dipendenti part time, ma solo ai dipendenti che hanno diritto ad almeno 10 giorni di ferie annuali retribuite. Si applica nel caso in cui sussista un reale rischio per la salute, di infortunio sul lavoro o di morte a causa della fatica.

Conclusioni

Anche la popolazione dovrebbe essere parta attiva della fine degli orari di lavoro troppo lunghi facendo sentire la propria voce davanti agli imprenditori e al governo e rivendicando condizioni di lavoro più sostenibili che li alleggerirebbero dalla pressione.

In quanto cittadini, è ugualmente necessario riflettere e valutare se l’eccessiva richiesta di servizi non stia promuovendo, nostro malgrado, l’inasprimento delle condizioni di lavoro di altri lavoratori.


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