Psicologia archetipica: la creazione dell'anima

Psicologia archetipica: la creazione dell'anima
María Vélez

Scritto e verificato la psicologa María Vélez.

Ultimo aggiornamento: 03 febbraio, 2023

L’uomo ha cominciato a muovere i primi passi credendo nelle divinità: entità soprannaturali che personificavano attributi, forze, valori universali (la Notte, la Giustizia, il Tempo, il Mare…); l’intero cosmo era concepito come un teatro in cui queste forze interagivano, dando un senso alla realtà e quindi alla vita stessa. La proposta teorica della psicologia archetipica parte dal principio che la nostra tendenza alle personificazioni non è mai scomparsa, persino quando in gran parte del mondo il politeismo è stato scalzato dal culto monoteista.

Lo storico culturale Richard Tarnas sostiene che “sulla propensione a vedere degli illuminanti universali nel caos della vita, Platone ha costruito la sua metafisica e la teoria della conoscenza”. 

Platone, così come il suo maestro Socrate, pensava che “le migliori certezze risiedano nelle più grandi astrazioni” e chiamò “archetipi” (forma primigenia) tali universali. Sarà, in seguito, il suo discepolo Aristotele a virare verso il concreto, un cambio di rotta che ha dato forma al pensiero scientifico.

Tuttavia, fu Sigmund Freud a teorizzare, molti secoli dopo, che il nostro inconscio quando sogna si esprime per mezzo di simboli interpretabili, carichi di significato per noi. A partire da questo, il suo discepolo Carl Gustav Jung ipotizzò il parallelismo tra tali immagini simboliche e quelle provenienti dagli antichi miti (l’eroe, l’ombra, il vecchio saggio, etc.); le favole primitive che il pensiero moderno aveva a lungo disprezzato continuavano a vivere nella nostra psiche.

Jung precursore della psicologia archetipica

Jung teorizzò l’esistenza di un “inconscio collettivo” e non solo individuale, notando che i simboli erano presenti anche nei pazienti che non conoscevano del tutto la mitologia antica. Così la scuola di psicologia analitica junghiana intraprese un percorso di studio sul modo in cui le figure archetipiche mitologiche influenzano, ancora oggi, le nostre vite.

La psicologia archetipica, contro l’ego e il materialismo

Due anni prima della morte di Jung avvenuta nel 1961, un giovane psicologo di nome James Hillman fu nominato direttore dell’Istituto C. G. Jung a Zurigo. Negli anni successivi si raccolse intorno a lui una piccola comunità di ricercatori. Finirono per rompere con la scuola analitica (sebbene non con le radici del pensiero junghiano), per fondare la psicologia archetipica.

La psicologia archetipica prende le distanze dalle priorità della psicologia analitica. Si concentra piuttosto sul controllo illusorio che l’ego esercita sulle nostre vite e sul modo in cui è costruita la nostra psiche – alla fine – attraverso una “pluralità di archetipi”.

La fonte della conoscenza non è più l’Io cartesiano, ma piuttosto quel mondo affollato di immagini in cui abita l’Io.

La psicologia archetipica si è mantenuta critica nei confronti delle principali scuole di pensiero psicologico (come il comportamentismo o la psicologia cognitiva). Queste vengono accusate di riduzionismo nell’adottare la filosofia e la prassi delle scienze naturali, e di essere in ultima analisi “psicologie senza psiche” (psyché è l’anima in greco).

Secondo Hillman, la psiche si manifesta nell’immaginazione e nella metafora: “Il mio lavoro è diretto verso una psicologia dell’anima basata su una psicologia dell’immagine. Sto suggerendo una base poetica della mente e una psicologia che non parta dalla fisiologia del cervello, dalla struttura del linguaggio, dall’organizzazione della società o dall’analisi del comportamento, ma dai processi dell’immaginazione”.

Una strada tra divinità e finzione

“Se una psicologia vuole rappresentare fedelmente la vera diversità dell’anima, non può dare per scontato sin dall’inizio, e insistendo su di essa con il pregiudizio monoteistico, l’unità della personalità”, sostiene Hillman.

Per questo motivo la psicologia archetipica presenta un aspetto politeistico e alcuni autori parlano, simbolicamente, di “dei” per riferirsi alla “pluralità degli archetipi”.

Così Hillman afferma che gli dei sono interiori,  sono dentro le nostre azioni, idee e sentimenti. Non dobbiamo avventurarci negli spazi stellati, nell’intelligenza celeste o liberarli dal loro occultamento con droghe allucinogene. Sono lì nel modo in cui ci sentiamo, pensiamo e sperimentiamo stati d’animo e sintomi.

Anche Patrick Harpur, nel suo libro, Philosophers’ Secret Fire, ricorre a questa identificazione tra idee e divinità. “Non è vero che abbiamo delle idee, ma piuttosto sono le idee ad averci. Dobbiamo conoscere quali idee, quali dei ci governano per gestire la loro influenza sui nostri punti di vista, sulle nostre vite. 

La proposta terapeutica della psicologia archetipica si basa sull’esplorazione delle immagini più che sulla loro spiegazione. Sull’essere coscienti di queste immagini, sul prestare esse attenzione finché non acquistino tutta la chiarezza possibile. Soprattutto nel contemplarle attentamente fino a quando la nostra osservazione non crei un significato. A questo punto si innesca un processo terapeutico che Hillman ha battezzato con il nome di “creazione dell’anima”.

Cosa cerca l’anima? Storie che curino. L’anima – spiega Hillman – si cura raccontandosi una storia migliore, un “come se” che dissolva quel sistema di credenze che mantiene l’anima intrappolata nelle sue miserie”.

Immagine principale “Pietà” di William Blake, 1795


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