Disturbo delirante e psicoterapia
È possibile convincere una persona con disturbo delirante che ciò che pensa non è reale? Per portare a termine una terapia, bisogna far finta di credere al delirio del paziente? È possibile evitare che il terapeuta entri nel delirio? Proveremo a rispondere a queste domande e a chiarire come si gestisce il delirio in terapia, indipendentemente da quale disturbo dello spettro della schizofrenia sia coinvolto.
I deliri possono presentarsi in associazione ad alcuni disturbi psichici o dello spettro della schizofrenia. È il caso del disturbo delirante (il cui unico sintomo psicotico è il delirio), il disturbo psicotico breve o la schizofrenia.
Parliamo di false credenze ed errate interpretazioni delle percezioni o esperienze. Queste sono raramente soggette a ripensamenti, neanche quando ci sono prove contrarie o non vengono condivise dalla maggior parte delle persone o della società.
Un esempio di delirio può essere quello di una persona che pensa che il partner sia infedele. Anche se non esistono prove concrete a favore dell’infedeltà, ne è convinta. A causa della cattiva interpretazione della realtà legata al delirio, la persona non è capace di abbandonare l’idea e continua a pensarci.
La confusione tra delirio e allucinazione
Quando si inizia la terapia, è importante non confondere un delirio con un’allucinazione. Quest’ultima si riferisce alla sperimentazione di esperienze sensoriali senza un segnale ambientale visibile. Sono del tutto involontarie e molto poco piacevoli, distruttive e sono forte causa di stress. Le allucinazioni stimolano i sensi senza che esista un reale stimolo esterno che ne giustifichi l’attivazione.
A volte le allucinazioni sono insite nel delirio. Per esempio, una persona con manie di persecuzione può sentire delle voci e pensare che siano i suoi persecutori, senza che tali voci vengano emesse davvero. In questo caso, la persona è vittima sia di un delirio che di un’allucinazione.
Tuttavia, in alcuni casi si presentano soltanto allucinazioni, per esempio un paziente che si sente insultato di continuo da voci anche se non è delirante; oppure casi di delirio senza allucinazioni, ovvero senza alterazioni visive, olfattive, tattili o uditive.
Il disturbo delirante in terapia
Gli obiettivi di una terapia per la schizofrenia o per il disturbo delirante sono diversi rispetto a quelli di altri interventi. In questo caso, è fondamentale insegnare al paziente a gestire lo stress e ridurre la vulnerabilità di fronte alle allucinazioni, ai deliri o alle crisi psicotiche.
A tale scopo, si cerca di ridurne l’attivazione e di riabilitare funzioni basilari che sono state alterate con l’arrivo della psicosi: attenzione, percezione, cognizione, ragionamento, apprendimento…
A sua volta, si cerca anche di allenare nel paziente le abilità sociali, di risoluzione dei problemi, le strategie di gestione e il ripristino delle attività quotidiane. Tutto questo non è facile come può sembrare: come lavorare col paziente su questi aspetti senza prima aver trattato il delirio?
Trattamento del delirio
La terapia cognitivo-comportamentale profila il dialogo come prima arma per combattere il delirio. Il dialogo, simile alla ristrutturazione cognitiva, mira a mettere in discussione le prove che la persona ha riguardo la veridicità del delirio, offrendo spiegazioni alternative e invitando il soggetto stesso a trovarle. Inoltre, dove possibile, si cerca di dimostrare con azioni concrete la realtà.
Spesso i fattori cognitivi coinvolti nelle manie di persecuzione rendono difficile per l’individuo comprendere le prove che gli vengono fornite. Per questo motivo, molto spesso il dialogo non risulta del tutto utile se prima non sono stati trattati gli aspetti legati all’attenzione, al ragionamento probabilistico e modelli di covarianza e referenza.
Durante la terapia non sarà breve il periodo in cui il terapeuta dovrà convivere con i deliri prima di potersi addentrare nel contenuto e dimostrare il contrario.
Fingere di credere o non credere
Una delle posizioni che possono essere adottate in terapia è quella di fingere di credere al delirio della persona per rinforzare il rapporto paziente-terapeuta, conquistando la sua fiducia. In realtà non è una tecnica raccomandabile in quanto se un soggetto esterno al paziente sostiene di credere al delirio, rischia di ottenere l’effetto contrario e rafforzare tale convinzione. Il terapeuta, dunque, non dovrebbe mai sostenere di credere al paziente, neanche all’inizio della terapia.
È tuttavia importante sottolineare il concetto di alleanza terapeutica. È probabile, infatti, che l’intera cerchia sociale e familiare del paziente delirante abbia provato a respingerlo con prove. Per questo, è fondamentale che in fase di terapia non si trovi davanti allo stesso muro; il terapeuta che si comporta come gli altri non instaurerà una buona alleanza terapeutica. In un primo momento si sconsiglia di addentrarsi nel contenuto del delirio. Il terapeuta deve credere pur non credendo.
Si tratta quindi di non esprimere nessun giudizio circa il delirio, resistendo alla tentazione di farlo finché il paziente non è preparato ad affrontare il dialogo. Qualsiasi intervento sarà più efficace se l’alleanza terapeutica instaurata è forte. Questo non sarà possibile se si sostiene che ciò che dice non è reale.
Lo psicologo come altro attore nel delirio
Il trattamento del disturbo delirante diventa problematico quando, di fronte alla reticenza del terapeuta a credergli, il paziente ritiene che egli stesso faccia parte del suo delirio. Anche se ciò non accadrebbe nel caso del delirio somatico (quando una persona crede che il suo corpo è cambiato, il suo volto è quadrato, un braccio è più lungo dell’altro e via dicendo) o del delirio di colpa (quando la persona pensa di aver commesso un peccato terribile e imperdonabile), potrebbe però succedere per il delirio di controllo del pensiero, delirio di grandezza o di persecuzione.
Nel caso del delirio di controllo del pensiero, il soggetto può arrivare a credere che qualcuno stia introducendo nella sua mente pensieri non suoi (anche detto delirio di inserzione). Quando il cliente è convinto che lo psicologo sia un’altra persona che non gli crede e gli mostra prove di realtà, è probabile che il paziente introduca il medico nel suo delirio. Il terapeuta passa così a far parte di quella macchina che lavora contro i suoi interessi e non lo può aiutare.
È fondamentale impedire che ciò accada. È difficile che una persona delirante vada autonomamente in terapia, e ancor di più che la terapia dia frutti se il cliente ritiene che il terapeuta sia contro di lui. Prima di cercare di dimostrargli l’impossibilità di quanto sostiene, occorre avere pazienza e concentrarsi sugli aspetti cognitivi.
Giocare dentro il delirio
Il fatto che il delirio e le false credenze persistano non significa che la terapia sia inutile. Considerato che tra i principali obiettivi della terapia rientra il miglioramento della funzionalità e del benessere della persona, il terapeuta può entrare nel delirio e lavorare da lì.
In caso di delirio di riferimento, dove il paziente crede che determinate frasi, gesti o fatti siano messaggi a lui diretti, si può parlare dell’impatto emotivo degli stessi, di come lo colpiscono o di cosa implica per lui sentirsi dire queste cose.
Non si tratta di credere nel delirio o di esplicitarlo, bensì di procedere con la ricostruzione in un contesto diverso dalla “realtà”. Si ragiona partendo dalla realtà del paziente. Si tratta dunque non di cercare di smentire o meno il delirio, bensì di metterlo da parte e concentrarsi sull’impatto emotivo e cognitivo dei messaggi percepiti all’interno del delirio. Come abbiamo visto, gli interventi migliori non sono sempre quelli che attaccano direttamente il problema.