Drammaturgia sociale: vivere con una maschera
È possibile analizzare la nostra interazione con gli altri come se fosse un gioco, come se la vita sociale fosse una successione di mascherate. Si chiama drammaturgia sociale quell’approccio micro-sociologico incentrato sullo studio della relazione tra il comportamento umano e le regole che controllano le interazioni quotidiane.
“La vita è una rappresentazione teatrale” affermava Socrate, indicando nella tragedia la raffigurazione più adatta all’esistenza umana. Ma il grande filosofo greco è accompagnato anche da Erving Goffman autore del libro La vita quotidiana come rappresentazione. Il sociologo canadese, fondatore della corrente dell’interazionismo simbolico, sosteneva che in ogni interazione sociale cerchiamo (in modo consapevole o meno) di proiettare una determinata immagine. E, questa, modifica il modo in cui gli altri ci percepiscono.
Per Goffman, la nostra personalità non è un fenomeno interno, ma la somma delle diverse “maschere” che mettiamo in scena per tutta la vita: una vera e propria drammaturgia sociale.
Come spiegare la drammaturgia sociale
Sia l’attore teatrale che quello sociale hanno come obiettivo principale il mantenimento della congruenza nell’interazione con chi li circonda.
Per trasmettere un’impressione positiva, occorre possedere abilità (sociali) drammatiche e costumi e oggetti di scena. Ma tutto ciò è irrilevante se gli attori presenti sul palco non sono in grado di concordare la “definizione della situazione”, le aspettative e i limiti dell’interpretazione che, implicitamente, indicano come inserirsi in un determinato contesto (ambiente sociale).
Sapersi muovere in questa drammaturgia sociale – tra il palcoscenico (i momenti in cui proiettiamo un’immagine per gli altri) e il backstage (la nostra vita privata, che a volte è essa stessa una maschera)- così come come mostrare la facilità nel passare da un set all’altro e avere sempre un guardaroba appropriato sono requisiti essenziali per raggiungere il successo sociale. Durante lo spettacolo, chi non sa come comportarsi costituisce un pericolo per il cast e finisce per essere messo da parte.
E, mentre recitiamo, i commenti e le espressioni di sorpresa, approvazione, ironia o dispiacere modellano l’opinione che gli altri hanno di noi. Ne siamo consapevoli e gestiremo quindi il nostro modo di parlare pensando prima di agire e controllando le nostre reazioni.
Tutti recitiamo, in ogni momento, e definiamo i nostri ruoli in base all’ambiente in cui ci muoviamo, cercando di adattarci a esso.
Questo adattamento al ruolo, questa proiezione per gli altri, viene eseguito in ogni momento e in ogni interazione sociale. Come gli attori di una serie TV, iniziamo con un episodio pilota (un lavoro, una relazione, il nostro primo corso all’università) con un personaggio che non è ben definito, ma capace di cambiare in base alla risposta del pubblico.
Partendo da qui, dedicheremo le nostre vite ad adattarci al personaggio, almeno fino a quando non viene fermata la rappresentazione e dobbiamo togliere la maschera (veniamo licenziati da un lavoro, divorziamo, completiamo gli studi, ecc.).
Immagine, occultamento e morale
Per Goffman, in questa drammaturgia sociale le persone cercano di presentare un’immagine idealizzata ogni volta che interagiscono, per la semplice ragione che sono convinte dei benefici derivanti dall’occultare determinati difetti o lati oscuri:
- Nascondiamo il processo di preparazione del nostro ruolo. Come l’insegnante che fa finta di presentare di getto una lezione imparata a memoria poche ore prima, preferiamo offrire agli altri solo il “risultato finale” della nostra esibizione. Nascondiamo gli errori, i passi falsi o le battute sbagliate. Tutto viene celato nella penombra del backstage.
- Nascondiamo il lavoro sporco svolto per ottenere il ruolo. Il nostro personaggio potrebbe essere incompatibile con tutto quello che abbiamo fatto prima che i produttori ci concedessero la possibilità di recitare. Come quel politico che vende onestà dopo aver mercanteggiato per anni e accettato compromessi di qualsiasi tipo per poter occupare la sua poltrona.
- Nascondiamo ciò che ci impedirebbe di continuare a recitare. Accettiamo gli insulti ed evitiamo di reagire alle umiliazioni che possono influenzare l’immagine che abbiamo scelto di offrire.
È molto interessante quanto affermato da Erving Goffman:
“Nella loro condizione di attori, le persone si preoccupano di mantenere la sensazione di soddisfare quelle regole che gli altri userebbero per giudicarle. Non si preoccupano del problema Morale di rispettare queste regole, ma di quello Amorale di creare una maschera per far credere a tutti che le stanno rispettando. La nostra attività si basa in gran parte sulla morale ma, in realtà, in quanto attori, non abbiamo alcun interesse morale in essa. Recitando come attori diventiamo mercanti della Morale”.
Siete d’accordo?