Happycrazia: vietato star male
Per molti, la psicologia positiva è nata negli anni 90 a opera di Martin Seligman. Questa disciplina è definita come lo “studio scientifico di ciò che rende la vita degna di essere vissuta”. Da quel momento in poi, coach, relatori motivazionali e manuali di auto-aiuto, “ci obbligano” a essere felici. È un fenomeno noto come happycrazia (dal termine originale happycracy in inglese). In questo articolo, analizzeremo gli effetti psicologici di questo tipo di “felicità imposta”.
C’è qualcosa di male nell’avere una brutta giornata? C’è qualcosa di male se un giorno capita di sentirsi giù di morale? Il fatto che a volte le cose non vanno come vogliamo significa che abbiamo bisogno di un aiuto professionale per imparare a gestire meglio la nostra vita? Assolutamente no.
Patologizzare i normali stati emotivi rischia di scatenare un’epidemia di infelicità, dovuta al credere di essere infelici perché non allineati alla definizione di felicità che tentano di imporci. Vediamo, nelle prossime righe, qual è il ruolo dell’happycrazia in tutto questo.
Cos’è l’happycrazia?
Cos’è la felicità? Ha davvero un significato universale? Qualcuno può insegnarci a essere felici oppure può fornirci gli strumenti per esserlo? L’industria della psicologia positiva promette di farlo. Se fosse vero, l’incidenza dei disturbi depressivi e il tasso di suicidi non aumenterebbero.
Ciò che la happycrazia tenta più o meno di dirci è che se non siamo felici è colpa nostra, del nostro modo di pensare e di affrontare le diverse situazioni, e della nostra incapacità di gestire le emozioni negative. Perché al giorno d’oggi, secondo i sostenitori della psicologia positiva, abbiamo tutti i mezzi per essere felici: coach, manuali di auto-aiuto, frasi motivazionali da attaccare allo specchio del bagno per ritrovare la felicità mentre ci laviamo i denti appena svegli… Un vero affare.
Le radici di questo “obbligo” derivano presumibilmente dalla teoria delle emozioni di James-Lange, i quali affermavano erroneamente che le emozioni derivano dalle espressioni facciali. Qualcosa del tipo: “sono triste perché piango” e non “piango perché sono triste”.
Logico, no? Quindi, anche se il mondo intorno a noi cade a pezzi, basta sorridere per raggiungere la felicità? Oppure se stiamo attraversando una fase difficile della nostra vita, basta fare colazione con una tazza con una frase motivazionale per risolvere tutti i problemi?
Del tutto logico, certo… Tuttavia, il numero di persone che alimentano questo mercato è davvero sorprendente. Il problema, però, è che le conseguenze di questo pensiero sono alquanto negative, a cominciare dalla piena e assoluta intolleranza al più minimo disagio.
Quali sono le conseguenze dell’essere felici a tutti i costi?
Siamo tutti piuttosto intolleranti al disagio, nostro e altrui. Non ci piace provare e accettare la tristezza, ci fa sentire deboli. Quante volte avete detto a qualcuno in preda al pianto “non piangere, dai”? Quante volte vi siete detti “non devo piangere” quando il corpo ve lo chiedeva a gran voce? Pessima mossa; le emozioni svolgono un’importante funzione adattiva. Piangere, spesso, è molto più che sano e necessario.
Messaggi come questo, o come tanti altri che sicuramente vi saranno venuti in mente leggendo queste righe, provocano sentimenti più negativi dell’emozione iniziale. Possono persino portare allo sviluppo di disturbi emotivi.
Sensi di colpa
Sensi di colpa e livelli variabili di stress. Stress perché la happycrazia costringe a stare bene subito, nel momento presente, perché “la vita è meravigliosa e se passiamo il tempo a piangere ne perdiamo la metà”. Ma il senso di colpa non nasce solo perché non riusciamo a stare bene in un dato momento, ma anche perché non siamo capaci di usare tutti i mezzi necessari per raggiungere tale scopo.
Perché anche essere tristi per una settimana è già troppo per la società: forse state esagerando, state prolungando troppo quello stato oppure vi ci state crogiolando. Anche per questo l’happycrazia rende inevitabilmente meno empatici, persino capaci di incolpare le persone per il loro disagio. Esiste qualcosa di meno umano di questo?
Solitudine e assenza di sostegno sociale
Sia reale che percepita. Sentiamo e percepiamo che le persone intorno a noi non accettano i nostri stati emotivi. O forse non riescono a tollerarli e si allontanano. Ciò accade perché, non riuscendo ad accettare la nostra tristezza e il nostro disagio, non siamo in grado di rispondere a quello altrui.
Siamo esseri sociali e il sostegno sociale, spesso, è fondamentale per superare una crisi o per riprendersi da un brutto periodo. Ci fa sentire amati, sostenuti e accettati. Quando manca, le cose si complicano e si finisce per affrontare problemi ancora più grandi, come stress e ansia.
Contro l’happycrazia: rispettare le proprie emozioni e quelle degli altri
Non c’è niente di più reale, sincero e sano che accettare la tristezza o la rabbia. È normale che ci siano giorni in cui non riusciamo a vedere il lato positivo delle cose. Ci imbattiamo in circostanze contorte, che ci travolgono o che non sappiamo gestire.
Avere delle brutte giornate, giornate grigie o nere non ci rende peggiori, ma veri. Diffidiamo dalle persone eternamente felici, il benessere eterno non esiste. Probabilmente, la loro strategia di affrontamento è l’evitamento, decisamente meno sana, costruttiva e adattiva.
Sforzarsi di sorridere quando dentro si è a pezzi è uno dei peggiori attacchi al proprio benessere mentale.
Le emozioni, sia positive sia negative, hanno diverse funzioni, tutte necessarie. Nasconderle sistematicamente non fa che aumentare i problemi a lungo termine.
Rispettare le proprie emozioni e quelle degli altri, accettarle e normalizzarle, promuoverne l’espressione non solo ci rende più umani, ma facilita anche una più sana e rispettosa transizione verso uno stato emotivo positivo. Senza obblighi, senza imposizioni, senza fretta.
Ricordiamo che siamo molto più di un’emozione negativa.