Alejandra Pizarnik, l'ultima scrittrice maledetta

Per Alejandra Pizarnik scrivere era un modo per trasformare il dolore, e la poesia era un'attività attraverso cui esorcizzare fantasmi, sanare ferite, scongiurare aneliti.
Alejandra Pizarnik, l'ultima scrittrice maledetta
Valeria Sabater

Scritto e verificato la psicologa Valeria Sabater.

Ultimo aggiornamento: 15 novembre, 2021

Di Alejandra Pizarnik si diceva che fosse nata con il buio nell’anima. La sua disobbedienza, la sua aria tragica e la sua passione si nutrirono delle sue tenebre per tessere una poesia unica ed irripetibile. Ci parlò di gabbie, di occhi, di pietre molto pesanti e di Isabel Bathory, la contessa sanguinaria. Navigò come nessuno fra la follia e l’onirico, per lasciarci un’opera d’eccezione.

Una donna che si sentì sempre straniera in questo mondo. Parlava spagnolo con un accento europeo. Era tormentata dai complessi, dall’aumento di peso. La sua infanzia fu pervasa dalle delusioni, dalle paure, dai vuoti… (il cielo ha il colore dell’infanzia morta, scrisse una volta). Si dice anche che provò di tutto nella vita, il giornalismo, la filosofia, la pittura…, ma solo la poesia e le anfetamine alleviarono i suoi pensieri irrequieti.

Alejandra Pizarnik fu anche la poetessa argentina che lasciò la sua stele a Parigi e che impregnò il suo cuore e la sua mente di un surrealismo ormai giunto alla sua tappa finale. Strinse amicizia con André Breton, Georges Bataille e Yves Bonnefoy, e soprattutto con chi fu un elemento chiave nella sua vita, così come nella sua carriera di prestigiosa poetessa: Octavio Paz.

Nessuno quanto lei esplorò la sofferenza e perfino la follia; era una donna sdoppiata che diceva di avere dentro di sé delle gemelle morte: delle Alejandra del passato e delle Alejandra del presente, che non ebbe mai il coraggio di essere. Si tolse la vita nel 1972 a 36 anni.

Ma fu una fine annunciata, perché passò tutta la sua esistenza in punta di piedi, in quell’abisso a cui si affacciò in diverse occasioni. Fin quando alla fine, trovò la liberazione dai suoi tormenti e dalle sue oscurità.

Tutt’oggi Alejandra Pizarnik è  conosciuta come l’ultima poetessa maledetta d’America. La sua lettura offre un’immersione nel romanticismo, nel surrealismo, nell’universo del gotico ed anche nella psicanalisi, tutto miscelato in dosi uguali fra loro. Un universo particolare che non lascia nessuno indifferente.

“Io non so parlarvi degli uccelli / non conosco la storia del fuoco. / Ma credo che la mia solitudine debba avere le ali”.

-A. Pizarnik-

Alejandra p da bambina.

Alejandra Pizarnik, una vita fra genialità e tenebre

Probabilmente nascere ad Avellaneda, un sobborgo di Buenos Aires, non fu per niente semplice per Alejandra Pizarnik. La sua famiglia era di origine russo-ebrea e trascinava in modo permanente il dolore di aver lasciato il proprio paese d’origine. La sua famiglia portava con sé i segni dell’Olocausto e dell’orrore, e le perdite personali vissute durante la guerra.

Quell’ombra dovette lasciare in lei un’impronta che si portò sin da piccola. Una ferita ereditata che si ingrandì ancora di più a causa di un fisico che non accettava, del rifiuto di una madre che apprezzava sua sorella più che lei, e di un’infanzia con problemi di salute quali asma e balbuzie. Per cui, sin da molto piccola, si sentì diversa, dentro un personaggio in cui non si riconosceva.

La letteratura e la filosofia furono quello spazio sicuro in cui trovare riparo sin da piccola. Quella vena letteraria risvegliò molto presto il suo bisogno di scrivere, e le aprì anche la porta  verso una particolare disobbedienza che l’avrebbe caratterizzata sempre.

Già durante l’adolescenza si faceva notare per il suo modo di vestire, per i suoi capelli corti e per il suo stile particolare. La sua mente e la sua arte cominciarono a dare testimonianza del suo carisma poetico ancor prima di giungere all’università.

Sempre in quel periodo, crebbe in lei il bisogno di ripararsi in un altro rifugio che non aveva niente a che vedere con i libri o con la scrittura. La preoccupazione per l’aumento di peso e il rifiuto del proprio corpo la portarono a prendere barbiturici e anfetamine.

Una vita di ricerche vane

Nel 1954 Alejandra Pizarnik comincia gli studi di lettere e filosofia all’Università di Buenos Aires. Non li finisce. Più tardi prova con il giornalismo. Non le piace nemmeno.

Successivamente, inizia una formazione artistica con il pittore surrealista Batlle Planas. Le ansie di trovare un senso e una via per realizzarsi la portano a trascorrere alcuni giorni a Parigi.

Così, fra il 1960 e il 1964 vive un periodo gratificante in cui comincia a lavorare facendo traduzioni e critiche letterarie per diverse riviste. Ed è in questo periodo che stringe amicizia con due figure molto rilevanti nella sua vita: Julio Cortázar e il poeta messicano Octavio Paz. Quest’ultimo scrive il prologo del suo libro di poesie Árbol de Diana (1962).

Opere di Pizarnik.

Nel 1965, come già in Argentina, prosegue la sua attività letteraria. Il suo lavoro viene apprezzato dalla comunità culturale dell’epoca e le vengono assegnate due borse di studio, la Guggenheim e la Fullbright. Ma non arriva a utilizzarle. Le sue crisi depressive, lo scoraggiamento e la ricerca di qualcosa che dia senso alla sua esistenza non arriva mai.

I suoi amici dissero poi che, dopo essere tornata da Parigi, cominciò a crearsi un alone di isolamento attorno a lei. Dopo la morte di suo padre cominciarono i tentativi di suicidio. La sua dipendenza dalle pillole per dormire diventò sempre più intensa, quasi disperata, tanto che nel 1972 venne ricoverata in un ospedale psichiatrico per un disturbo depressivo maggiore.

Approfittando di un permesso dall’ospedale, il 25 settembre mise fine alla sua vita prendendo 50 pillole di Seconal. Ormai non si poteva tornare indietro, Alejandra Pizarnik aveva trovato la sua liberazione. Aveva 36 anni.

“Fra le altre cose, scrivo perché non succeda quello che temo; perché quello che mi ferisce non esista; per allontanare il Cattivo. Si è detto che il poeta è il grande terapeuta. In questo senso, l’attività poetica implicherebbe l’esorcizzare, lo scongiurare e anche il riparare. Scrivere un poema è riparare la  ferita fondamentale, lo strappo. Perché tutti siamo feriti”.

-A. Pizarnik-

L’opera di Alejandra Pizarnik

Gran parte dell’opera di Alejandra Pizarnik orbita fra due sfere: la sua infanzia a Buenos Aires e la sua attrazione per la morte. Inoltre, non è da sottovalutare il fatto che oggi possiamo ammirare gran parte dei suoi lavori grazie a Julio Cortazar, e soprattutto alla sua prima moglie, Aurora Bernárdez.

La famiglia di Alejandra, molto intransigente e perfino disgustata dallo stile letterario della propria figlia, stava per distruggere i suoi quaderni e gli scritti personali. Inoltre, la repressione culturale in Argentina mise a rischio la conservazione di parte della sua opera.

Quindi i suoi Diarios, per esempio, vennero portati a Parigi dove la famiglia Cortázar li custodì finché non rimasero all’Università della Colombia.

Lo stile

Alejandra Pizarnik scrisse freneticamente dai 15 anni. Lo fece devotamente, perché quella era l’unica via di salvezza in un mondo di cui non si sentì mai di far parte. La sua poesia è piena di simboli, di silenzi, di follia, dell’ombra della morte, di deliri… Lei stessa diceva che la poesia era quel luogo in cui l’impossibile diventa possibile.

Alejandra pizarnik in libreria.

Fu anche la voce del femminismo; le sue parole erano di una bellezza sovversiva, che contemplava solo la verità. Criticava le etichette, le convenzioni e l’obbligo di far parte di un modello sociale. Fu una donna incapace di adattarsi a qualsiasi tipo di aspettativa.

Da questo originavano la noia, la sonnolenza e quella viscida malinconia che faceva collassare il suo cuore fino ad impregnare la sua poesia. Alejandra Pizarnik fu l’ultima poetessa maledetta, una scrittrice che continua a travolgerci con i suoi versi, con la sua voce lontana ma sempre netta.

” Semplicemente non sono di questo mondo. Io abito smaniosamente la luna. Non ho paura di morire; ho paura di questa terra lontana, aggressiva. Non riesco a pensare a cose concrete; non mi interessano. Io non so parlare come tutti. Le mie parole sono strane e vengono da lontano, da dove non è, dagli incontri con nessuno… Cosa farò quando mi immergerò nei miei sogni fantastici e non potrò risalirne? Perché qualche volta accadrà. Me ne andrò e non saprò tornare”.


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  • PIÑA, Cristina (2005) Alejandra Pizarnik. Una biografía, Buenos Aires, Corregidor
  • VENTI, Patricia (2008) La escritura invisible: el discurso autobiográfico en Alejandra Pizarnik, Barcelona, Anthropos
  • Depetris, C. (2008). Alejandra Pizarnik después de 1968: la palabra instantánea y la “crueldad” poética. Iberoamericana (2001-), 61-76.

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