Basi neurobiologiche dell’aggressività
L’aggressività è un comportamento presente nella maggior parte degli esseri viventi. Gli animali ne fanno uso per difendersi dai predatori o per procurarsi il cibo. Tuttavia, gli umani sono andati oltre, dal momento che spesso i nostri comportamenti aggressivi si manifestano per vendetta o a causa di qualche psicopatologia. Ciò rende importante conoscere le basi neurobiologiche dell’aggressività.
Grazie a queste basi, possiamo identificare le implicazioni a livello cerebrale che entrano in gioco nel momento in cui si manifesta un comportamento aggressivo. Comprenderemo che non sono coinvolte solo alcune parti del cervello, ma anche alcuni ormoni e neurotrasmettitori. Questi incidono in modo significativo nel controllo o mantenimento dei comportamenti aggressivi.
Che cos’è l’aggressività?
La parola “aggressività” deriva dal latino adgredior che si traduce in italiano come “accusare“ o “assalire”. Pertanto, il termine fa riferimento a una qualità associata alla distruzione o alla violenza. D’altra parte, si è dimostrato che l’aggressività è essenziale per la sopravvivenza degli esseri viventi, sebbene sia presente anche in diverse psicopatologie. Parliamo dunque di una dimensione in cui le differenze sono a volte impercettibili, ma determinanti.
Esistono diverse classificazioni per l’aggressività. Una di queste è stata sviluppata da Halsband e Barenbaum (2008) secondo cui l’aggressività può essere impulsiva o predeterminata.
- Il primo caso è una reazione a uno stimolo percepito come un’offesa o una minaccia. Di solito è motivato dalla paura o dalla rabbia. In questo caso, le persone che sviluppano un comportamento aggressivo potrebbero non essere in grado di valutarne molto bene le conseguenze.
- D’altra parte, l’aggressività predeterminata ha come base un obiettivo specifico. In questo caso, la reazione viene calcolata e pensata, quindi l’azione che ne consegue può essere più pericolosa.
Quali sono le basi neurobiologiche dell’aggressività?
Nella pratica si è riscontrato che ci sono pazienti meno inibiti, più intrepidi e frettolosi, con tendenza all’impulsività. Ciò porta a risposte o comportamenti aggressivi che influenzano il processo decisionale. Il tutto ci fa pensare che le basi biologiche dell’aggressività si trovino nel cervello. Le descriviamo qui di seguito.
Livello corticale
Diverse ricerche hanno dimostrato che la corteccia prefrontale costituisce una delle basi neurobiologiche dell’aggressività.
Nello specifico, è stato riscontrato un rapporto diretto con la funzionalità della corteccia orbitofrontale e ventromediale. Queste aree, di fatto, sono caratterizzate da un’ipoattivazione che influisce sull’inibizione delle risposte aggressive e genera una maggiore irritabilità.
Allo stesso modo, si è scoperto che tale correlazione si deve alle funzioni proprie di quest’area cerebrale. Tra queste funzioni troviamo: controllo e regolazione emotiva, pianificazione del comportamento e condotta morale etica. Tutto ciò induce la persona ad aumentare i comportamenti aggressivi, soprattutto quelli di tipo impulsivo.
Livello subcorticale
Le innovative tecniche di neuroimaging hanno facilitato la scoperta di varie strutture subcorticali che fanno parte delle basi neurobiologiche dell’aggressività.
La prima è l’amigdala, che svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo di comportamenti aggressivi. Questo perché da essa dipendono diverse funzioni quali:
- Cognizione sociale.
- Regolazione delle emozioni.
- Elaborazione della ricompensa.
- Memoria emotiva.
- Rilevamento delle minacce nell’ambiente circostante.
- Stimolazione della reazione di attacco o fuga.
Nello specifico, è stato riscontrato che nelle persone più aggressive l’amigdala presenta un volume minore. In quest’area, inoltre, si segnala una maggiore attivazione quando sono presenti comportamenti aggressivi.
La seconda struttura subcorticale coinvolta nell’aggressività è l’ipotalamo. Quest’ultimo è responsabile del coordinamento dell’espressione automatica dello stato emotivo. Per l’esattezza, registra i cambiamenti interni e attiva le reti neurali che conferiscono gli attributi affettivi a un particolare stimolo.
Anche l’ipotalamo, pertanto, costituisce una delle basi neurobiologiche dell’aggressività, perché può generare una reazione specifica a uno stimolo esterno presente.
Basi neurobiologiche dell’aggressività a livello chimico
Il neurotrasmettitore maggiormente correlato all’aggressività è la serotonina (5-HT). È stato riscontrato che in presenza di bassi livelli di serotonina, i comportamenti aggressivi aumentano notevolmente.
Questa riduzione si verifica soprattutto nel nucleus accumbens, responsabile di anticipare e preparare al confronto. Lo stesso avviene nella corteccia prefrontale, responsabile della regolazione emotiva e delle funzioni cerebrali più complesse.
Anche la noradrenalina costituisce una delle basi neurobiologiche dell’aggressività. Diverse ricerche hanno dimostrato che più l’attività di questo neurotrasmettitore diminuisce, più i comportamenti aggressivi si riducono. Pertanto, l’eccesso di noradrenalina può portare a comportamenti aggressivi.
Anche la dopamina è collegata ai comportamenti aggressivi. Un suo aumento nello spazio intersinaptico è associato alla condotta aggressiva. A seguito di un’analisi più rigorosa, vediamo che, a seconda del recettore della dopamina, diminuiscono anche le probabilità di presentare comportamenti aggressivi.
Si è riscontrato, d’altronde, che anche gli ormoni hanno un ruolo importante per quanto riguarda l’aggressività. Per esempio, è stato scoperto che un aumento degli androgeni infonde rabbia e può portare all’aggressività.
Nello specifico, ci si riferisce all’aumento di testosterone. Analogamente, queste ricerche hanno mostrato un aumento dei comportamenti aggressivi a seguito di maggiori livelli di vasopressina e ossitocina.
Conclusioni
I comportamenti aggressivi si devono a diverse strutture corticali e subcorticali del cervello. È evidente, inoltre, una grande influenza di alcuni ormoni e neurotrasmettitori. Ciò dimostra la complessità dei comportamenti aggressivi e il bisogno in alcuni casi dell’intervento di un professionista della salute mentale.
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