Il Caso Spotlight: il valore del giornalismo
Qui c’è una storia, e tutti lo sapranno. I tappeti che non vengono sollevati per lungo tempo si trasformano in immensi depositi di polvere, che si alza in soffocanti nuvole grigie quando li calpestiamo. Il Caso Spotlight è un film meraviglioso perché, nel suo modo di narrare, mantiene intatto il suo impegno con il cinema, ma anche con la professione che rappresenta, il giornalismo, e con i fatti reali ai quali rende giustizia sul grande schermo.
Il tappeto che la redazione del Boston Globe decide di scuotere è uno di quelli che, a prima vista, sembrano immacolati, con i colori ancora brillanti e vivaci. Parliamo della Chiesa cattolica come istituzione. Una Chiesa con un’influenza enorme sulla comunità (Massachusetts, Boston, 2002) in cui i fatti si svolgono. La vera e propria spina dorsale della stessa, con un ruolo sociale così importante da indurre molti a pensare che sia meglio voltarsi a guardare dall’altra parte quando sotto il suo tetto vengono commessi dei crimini, persino abusi sessuali su minori.
“Una stampa libera tiene sotto controllo anche le istituzioni più potenti.”
–Il Caso Spotlight–
Il riconoscimento della critica
È difficile mettere in evidenza l’aspetto migliore de Il Caso Spotlight, poiché si tratta di un film che funziona benissimo nel suo insieme. Gli attori sono all’altezza, la sceneggiatura è ben scritta, le inquadrature sempre efficaci e le scene si susseguono ordinatamente, senza che ci siano storie secondarie a offuscare la trama principale. Il film è sincero con lo spettatore, e si fa carico di questo impegno dalla sequenza iniziale fino alla conclusione.
Il Caso Spotlight ha vinto l’Oscar come miglior film nel 2015, piazzandosi davanti a pellicole di indubbio valore come Revenant – Redivivo e Il ponte delle Spie, o ancora allo sconvolgente Room. Ha ottenuto anche il premio per la miglior sceneggiatura originale, categoria in cui gareggiava con rivali notevoli come Inside Out. Premi che di per sé possono non dirci molto, ma che ci fanno quantomeno capire che si tratta di un film degno della nostra attenzione.
“Quando sei un bambino povero di una famiglia povera e un prete si interessa a te è una gran cosa… Come puoi dire no a Dio?”.
–Il Caso Spotlight–
Il punto di partenza
Le fiches cadono sul tavolo. Nella sede del prestigioso Boston Globe, una squadra di reporter investigativi lavora in piena libertà. È composta da un caporedattore (Michael Keaton) che guida Mark Ruffalo, Rachel McAdams e Brian d’Arcy James. Al gruppo si aggiungono anche un assistente del direttore (John Slattery, che interpreta Ben Bradlee Jr.) e il neodirettore, Liev Schreibe, nei panni di Marty Baron.
Sarà proprio il nuovo arrivato, Baron, a dirigere l’attenzione della squadra sugli abusi sessuali che si consumano all’interno della Chiesa, sotto lo sguardo cieco dei religiosi che occupano le posizioni più elevate nella gerarchia interna dell’organizzazione. Da questo punto in poi, le telecamere si rivolgono verso quelle persone che avrebbero potuto fare qualcosa, ma non l’hanno fatto, che hanno taciuto o contribuito a mantenere il silenzio.
Da un punto di vista psicologico risalta chiaramente un dettaglio: il film è un chiaro esempio di come, in molte occasioni, è un elemento esterno ad accendere la miccia del cambiamento. In situazioni di violenza, per esempio, questo elemento è di solito un’esperienza ravvicinata. Nel caso del film, il cambiamento arriva con il nuovo direttore: una persona che è cresciuta lontano dalle forme di controllo che la Chiesa esercita in quella specifica comunità.
Il Caso Spotlight, un film che ha cambiato il corso della storia
Se consultiamo le statistiche, scopriremo che in tutto il mondo sono quasi 100.000 le vittime di pedofilia da parte di membri del clero che sono state riconosciute come tali. Senza tenere conto di tutti i casi rimasti impuniti per il principio del ragionevole dubbio, o che non sono neppure venuti alla luce. Ma la parte forse più difficile da accettare è probabilmente il silenzio, la complicità e la permissività in molti di questi casi: la paura della Chiesa stessa di rendere conto dei propri peccati, di riconoscersi come umana laddove la maggior parte della società già la percepisce come tale.
Sono stati fatti dei progressi e forse abbiamo infranto la superficie esterna e più dura del problema, ma rimangono ancora molti casi da scoprire. E non si tratta di vendetta né di mancanza di fede, ma solo del desiderio che episodi del genere non si ripetano più; che le vittime si sentano supportate e protette contro gli aggressori.
Affinché nessuna istituzione si convinca di nuovo che sia meglio coprire o nascondere, piuttosto che denunciare e promuovere l’applicazione della legge.