Plasticità cerebrale e psicoterapia
Oggi abbiamo il piacere di intervistare Marcelo Ceberio per parlare di un argomento molto interessante: la plasticità cerebrale e il suo rapporto con la psicoterapia.
Ceberio è uno psicologo e scrittore argentino, una tra le figure più importanti della psicologia contemporanea. È autore di numerose opere, pubblicazioni scientifiche e più di 25 testi in lingua inglese e spagnola.
È anche uno dei massimi rappresentanti della scuola sistemica. Ha studiato presso il Mental Research Institute di Palo Alto, in California, dove attualmente lavora come docente e ricercatore.
“Un esercizio per stimolare la plasticità cerebrale potrebbe essere un’attività semplice come percorrere nuove strade evitando quelle conosciute. Lavarsi i denti con la mano opposta o camminare all’indietro.”
-Marcelo Ceberio-
Plasticità cerebrale e psicoterapia, intervista a Marcelo Ceberio
Il cervello è ancora avvolto da un certo alone di mistero. Quest’organo, poco più pesante di un chilo e mezzo e dalle sofisticate connessioni neuronali, è capace di cambiare attraverso ciò che facciamo o pensiamo. Chiamiamo questo processo plasticità cerebrale o neuroplasticità, ovvero la capacità del cervello di cambiare la sua struttura fisica e la sua organizzazione funzionale in base al comportamento.
Ci troviamo di fronte a una dimensione che fino a poco tempo fa non era ritenuta valida. Si pensava addirittura che a una certa età fosse impossibile creare nuove reti neurali. Al giorno d’oggi, tuttavia, figure importanti fanno ricerca nel tentativo di capire questi meccanismi così da ingenerare dei cambiamenti nei pazienti.
Marcelo Ceberio, dal canto suo, ci rivela che anche l’intervento terapeutico favorisce la plasticità cerebrale. Si tratta pertanto di uno strumento molto promettente, che ci permetterebbe di ricostruire significati, creando nuovi stili di pensiero per il benessere della persona. Lo stesso Marcelo Ceberio ce lo spiega in questa interessante intervista.
D. Cos’è la plasticità cerebrale o neuroplasticità?
Fino a non molto tempo fa si pensava che fosse impossibile creare nuove reti neurali dopo una certa età. Oggi sappiamo invece che fino all’ultimo giorno di vita creiamo nuove reti, e reti di reti e reti di reti di reti! Le reti neuroplastiche sono formate da una catena di neuroni interconnessi che si influenzano a vicenda.
È un effetto domino neuronale in cui le cellule nervose operano a catena e in sinergia tra loro. Se l’ambiente in continuo cambiamento, la plasticità comportamentale è necessaria all’adattamento e con essa l’associazione neuronale che produce una reazione a catena che coinvolge emozioni, pensieri e azioni.
Questa plasticità è una proprietà dei sistemi biologici che consente loro di adattarsi ai cambiamenti ambientali per sopravvivere; pertanto, l’apprendimento e la memoria sono eventi che favoriscono la flessibilità e più è plastico il sistema nervoso, maggiore è la capacità di apprendimento degli organismi.
A questo punto, dobbiamo ricordare che le emozioni darwiniane di base – gioia, tristezza, disgusto, paura, sorpresa e rabbia – hanno permesso l’adattamento e la sopravvivenza in diversi contesti dei nostri antenati ominidi, nonché di raggiungere l’attuale stadio evolutivo.
D. Come possiamo aumentare la plasticità cerebrale?
Parte della coreografia della comunicazione umana è modellata attraverso un correlato di azioni, retroazioni e interazioni che generano numerosi costrutti popolati di significati. Ma questi significati sono anche i generatori di questi circuiti, e così, ricorsivamente in un sistema senza fine.
Tuttavia, le azioni – e qui includo i discorsi – quando riversate nel contesto, producono codificazioni proprie dell’interlocutore. Motivo per cui la risposta nell’interlocuzione emerge come prodotto di costruzioni attributive personali.
Ogni cosa (uso questo termine per indicare soggetti, situazioni e oggetti) di cui facciamo esperienza è racchiusa in categorie. Le categorie sono scatole cognitive che prevedono una particolare semantica. Le categorie raggruppano le cose in classi e al tempo stesso una categoria può essere parte di un’altra categoria e integrare più categorie: la sedia è all’interno della categoria dei mobili, ma al contempo può indicare una categoria che riunisce diverse forme e stili di sedie.
Con la nostra percezione operiamo delle distinzioni, ovvero concentriamo o poniamo attenzione a cose che hanno un certo effetto su di noi e molte di queste cose sono incluse in categorie concatenate in una rete con uno o più significati. In tal senso, le reti categoriali hanno la loro controparte nelle reti neuroplastiche.
La perseveranza nelle azioni sviluppate all’interno degli stessi costrutti di significato, le consuetudini, l’abitudine di sviluppare azioni all’interno degli stessi schemi, i tentativi infruttuosi di arrivare a una soluzione, che continuiamo ad applicare pur ottenendo un risultato opposto a ciò che vogliamo, mostrano lo stesso solco, lo stesso percorso di reti neurali. Quando la rete viene perpetuata, sistematizzata, facendoci cadere in un’inerzia che va contro lo svolgere azioni, percezioni o emozioni diverse, ci porta nella direzione opposta alla creatività.
Questo piccolo prologo serve a capire che possiamo sviluppare la plasticità cerebrale attraverso la pratica. Intraprendere percorsi alternativi a quelli tradizionali rappresenta sempre una grande sfida, ma è un modo per espandere le nostre reti neuroplastiche.
Parlando di percorsi, ad esempio, io sono un maratoneta e vedo tante persone allenarsi solo nei circuiti conosciuti, sentieri nei parchi, strade, piste, ecc. Sono pochi quelli che osano tracciare percorsi alternativi, di solito si limitano a percorrere quelli precostituiti. Un esercizio per stimolare la neuroplasticità potrebbe essere semplice come correre evitando i percorsi tradizionali.
Lavarsi i denti con la mano opposta, camminare all’indietro o trovare soluzioni alternative a quelle che adotteremmo normalmente; sono tutte azioni che ci possono aiutare a costruire percorsi diversi nelle nostre reti, sia categoriali che neurali.
D. Quindi, è possibile lavorare sulla plasticità cerebrale anche in terapia? In che modo?
In terapia si lavora sempre con le reti neurali, perché quando il paziente racconta ciò che gli accade, il filo del discorso nel descrivere la sequenza dei fatti è una catena neuroplastica.
I significati, il modo in cui elabora le informazioni, il modo in cui si emoziona, tutto ciò forma una rete neurale. Ricordiamo che quando costruiamo il mondo attraverso categorie che implicano un significato, questa rete di categorie cognitive ha la sua controparte neurobiologica in una rete neuronale.
Concepisco la terapia, o meglio l’intervento terapeutico di qualsiasi approccio, come una profonda ristrutturazione di significato; che sia il percorso utilizzato per intervenire, quanto l’aspetto pragmatico (prescrizioni di compiti) o emotivo (psicodramma, uso del corpo ), come quello cognitivo (inquadramento, connotazione positiva).
Quando inquadriamo, operiamo una riclassificazione, per cui la variazione di categoria in cui rientra il problema comporta una ristrutturazione di significati. Il problema viene pertanto ridefinito e smette di essere tale.
Il cambio di categoria e la ristrutturazione di significato sono il prodotto dell’organizzazione di una nuova rete neuroplastica, una sequenza neurale che costruisce un percorso alternativo a quello che stava già sviluppando. Ovvero, spezza la sistematizzazione neuronale, la rete che causava la produzione di angoscia, rabbia e tensione. Il modo in cui si elaborano le informazioni , ovvero ciò che costituisce la catena neuronale.
Grazie alla plasticità cerebrale, possiamo creare opportunità di cambiamento attraverso la parola e il linguaggio non verbale. Strategicamente, come terapeuti interveniamo per facilitare la costruzione di una nuova rete.
D. Tutte le situazioni o i problemi che i pazienti portano in seduta sono soggetti alla plasticità cerebrale?
Sì, certo, come ho risposto alla domanda precedente, tutti i problemi umani implicano la costruzione di reti neuroplastiche. In terapia, le decostruiamo creando nuove categorie e reti alternative a quelle tradizionali.
Detto così sembra semplice, ma si tratta di un percorso molto complesso, una sorta di congiunzione tra arte e scienza. Di recente ho tenuto diverse lezioni di epistemologia sistemica e c’è una frase di Einstein che dice: è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio.
Le azioni, il modo in cui si emozioni o si elaborano cognitivamente i dati dell’informazione creano le reti, vale a dire le reti sono inerziali. Questo è ciò che ci porta a fare sempre le stesse cose e a usare sempre la stessa formula anche se ci fa ottenere il risultato opposto.
Preconcetti, ordini e riti sono gli ingredienti di una rigida struttura di reti neurali che rendono difficile costruire reti alternative. Ma la domanda è come intervengono i terapeuti.
D. Puoi farci un esempio?
Ricordo sempre una coppia di ebrei con quattro figli, che mi consultarono perché la figlia maggiore aveva abbracciato l’ortodossia religiosa. Non capivano perché non permettesse ai suoi due figli di incontrare il il cugino.
Una volta indagato sui quattro figli, scoprì che la figlia maggiore aveva sposato un ebreo osservante e professava a oltranza i suoi rituali coinvolgendo tutta la famiglia. L’altro fratello professava la religione come i genitori, in modo flessibile, celebrando lo Shabat di tanto in tanto e frequentando il tempio sporadicamente. I due fratelli minori erano atei e avevano sposato partner di fede cattolica. Uno di loro aveva un figlio e secondo la religione, i suoi cugini religiosi non potevano avere contatti con lui.
I genitori erano angosciati perché in molte ricorrenze, le coppie non potevano presenziare contemporaneamente. Non riuscivano a capire l’atteggiamento della figlia e del genero. Come potevano la devozione e la fede religiosa essere più forti del legame di sangue? Si sentivano gravati dal senso di colpa per l’educazione dei figli e si chiedevano in cosa avevano sbagliato.
Dovettero imparare molto sulla religione per capire quanto forte poteva essere questo tipo di adesione, ma l’intervento principale fu la ristrutturazione dei loro sensi di colpa. Feci notare loro, tra le altre cose, che erano dei bravi genitori: affettuosi e preoccupati per il benessere dei loro figli, tanto che questa preoccupazione li aveva portati in terapia…
Affermai con forza che avevano fatto crescere i loro figli nella totale libertà di scelta a tutti i livelli: ideologica, sociale, politica e religiosa. Che non erano stati costretti a seguire alcun modello, ma che erano liberi di scegliere.
Ebbene, crescere i propri figli con un tale livello di libertà ha come conseguenza proprio quanto accaduto, e questo è un rischio che deve essere accettato, ma il rischio è sempre il benvenuto se è il risultato è la libertà di scelta. Pertanto, mi sono congratulato con loro per essere stati dei genitori amorevoli e responsabili.
Lasciarono la seduta perplessi, ma senza sensi di colpa. Durante l’incontro successivo erano più felici, e pianificammo insieme l’organizzazione di feste e riunioni di famiglia. La ricategorizzazione provocò un cambio di categoria degli stessi eventi, per i quali si svilupparono di conseguenza altre azioni. Questo è un cambiamento neuroplastico, cambiare categoria implica la creazione di un’altra catena sinaptica.
D. In altre parole, significa che il cambiamento in terapia è relazionato alla neuroplasticità? In che modo?
Certo. La possibilità di modificare i significati crea – a condizione che l’intervento si adatti al paziente – una rete alternativa a quella inerziale e sistematizzata.
La forma, lo stile, o come si suol dire l’intervento, oltre il contenuto, è l’effetto che consente di costruire una nuova categoria. Rilevare il canale più utilizzato dal paziente (visivo, tattile, olfattivo, uditivo, ecc.), in modo da utilizzare il suo stesso linguaggio, consente l’introduzione più efficace degli interventi.
La sottile duplicazione di parole chiave, frasi, cadenze e rituali, posizioni corporee, movimenti e gesti facilita l’introduzione di nuovi significati.
D. Lavorare alla costruzione della realtà, ovvero lavorare sulla cognizione di una persona, ha a che fare con la neuroplasticità?
Quando parliamo di significati di ristrutturazione, intendiamo rendere più flessibili le categorie che si applicano ai fatti, ed è per questo che, quando viene apportato un cambiamento a livello cognitivo, si aspettano emozioni e azioni diverse, in questo modo si costruisce una realtà alternativa alla precedente.
Inoltre, nella misura in cui ci esercitiamo nella modificazione delle nostre reti neurali, sviluppiamo una maggiore neuroplasticità ed esercitiamo maggiormente il nostro emisfero destro, la creatività per eccellenza.
Applichiamo dunque soluzioni alternative ai problemi, capiamo meglio il punto di vista altrui, ovvero diventiamo più empatici, e riusciamo più facilmente a stabilire punti di vista diversi sulle cose.
D. Esiste una relazione tra epigenetica e plasticità cerebrale?
L’epigenetica è la branca della biologia che studia le interazioni causali tra i geni e i loro prodotti che danno origine al fenotipo. Teniamo presente che non si osserva il genotipo di ciascun essere umano, ma il fenotipo, che è il risultato dell’equazione tra il genotipo e il contesto.
Oggi non esiste ancora un consenso universale riguardo a quanto siamo stati preprogrammati o modellati dall’ambiente. Il campo dell’epigenetica è emerso come un ponte tra le influenze genetiche e ambientali. La definizione più comunemente riscontrata del termine epigenetica è lo studio dei cambiamenti ereditabili nella funzione genica che si verificano senza modifiche nella sequenza del DNA.
Teniamo conto del fatto che lo stress produce delle conseguenze sul sistema immunitario ed è l’effetto chiave di tutte le malattie dal raffreddore al cancro. Perché tra persone nella stessa condizione qualcuno si ammala o produce sintomi, mentre altri rimangono sani?
Questa è la differenza di ogni DNA, lo stress attiva geni silenziosi, che non si attiverebbero se non si verificassero delle situazioni caotiche. È il caso dei gemelli che hanno il gene del cancro nel proprio patrimonio genetico: uno muore di cancro terminale a 30 anni e l’altro di vecchiaia a 90 anni. Cosa li differenzia?
Stile di vita, emozioni negative, fattori ambientali, abitudini e consuetudini, fumo, dieta, stress, situazioni ad alta tensione emotiva possono tradursi in un effetto sui geni. La traduzione di cortisolo elevato da stress alla metilazione o acetilazione degli istoni che attivano i geni è tuttora sconosciuta.
Si potrebbe dire che la neuroplasticità è un fattore anti-stress, in quanto con godere di maggiore flessibilità, empatia e capacità di soluzione rende più facile la vita, conferendo maggiore relax al ritmo di vita. Ragion per cui è possibile spezzare i circuiti di attivazione epigenetici e migliorare la qualità della vita.
Conclusione
Come abbiamo appena letto, è possibile sviluppare maggiore plasticità cerebrale non solo esercitando nuove vie cognitive e percorsi alternativi, ma anche attraverso il processo terapeutico. Senza dubbio, parlare con Marcelo Ceberio è stata un’opportunità per imparare qualcosa di nuovo.