Emily Dickinson e i suoi demoni mentali

Emily Dickinson trascorse gli ultimi vent'anni della sua vita rinchiusa nella sua stanza. Vestiva sempre di bianco, soffriva di emicrania e chiese di essere sepolta in una bara con fiori bianchi profumati di vaniglia.
Emily Dickinson e i suoi demoni mentali
Valeria Sabater

Scritto e verificato la psicologa Valeria Sabater.

Ultimo aggiornamento: 15 novembre, 2021

“Non c’è bisogno di essere una stanza per sentirsi infestati dai fantasmi”, scrisse Emily Dickinson. Poche figure nel mondo della poesia sono state tanto enigmatiche da un punto di vista psicologico. In tal senso, in opere come Sentivo un Funerale, nel Cervello, lascia intravedere, secondo alcuni esperti, diversi indizi sul motivo per cui decise di rinchiudersi per sempre nella sua stanza, isolandosi dal mondo e dalla società.

Nel corso dei decenni, sono state molte le speculazioni sul possibile sconvolgimento che colpì la celebre poetessa nordamericana. La sua reclusione iniziò nel 1864, quando aveva circa 30 anni. Finì il giorno della sua morte, all’età di 55 anni. Scelse di vestire sempre di bianco e di non oltrepassare mai quella linea che andava oltre lo spazio della sua stanza.

Quell’isolamento le permise di immergersi completamente nella sua opera letteraria. La solitudine le offrì senz’altro l’ispirazione necessaria alla sua creatività, ma con il tempo, divenne anche poco più di uno spettro dietro una finestra. Non fu nemmeno in grado di assistere al funerale del padre, tenuto nel salotto di casa sua.

Nel 2003, il dottor David F. Maas, District Manager dell’Università del Minnesota, condusse un interessante studio dal titolo Reflections on Self-Reflexiveness in Literature, nel quale venne analizzato lo stato emotivo della scrittrice.

Da allora, sono stati pubblicati molti altri lavori, grazie ai quali è possibile avere un’idea approssimativa dei demoni interiori che tormentarono la vita di Emily Dickinson. Gli stessi demoni che al contempo le donarono un innegabile impulso creativo.

“Sentivo un Funerale, nel Cervello,
E i Dolenti avanti e indietro
Andavano – andavano – finché sembrò
Che il Senso fosse frantumato –

E quando tutti furono seduti,
Una Funzione, come un Tamburo –
Batteva – batteva – finché pensai
Che la Mente si fosse intorpidita” (…)

-Emily Dickinson-

Emily Dickinson e i tamburi nella mente

I poeti hanno sempre avuto la grande abilità di immergersi come nessun altro nei propri complessi oceani mentali. Lo stesso Edgar Allan Poe, ad esempio, scrisse nel suo poema Solo, “Fin dall’infanzia mai son stato come gli altri; mai ho visto come gli altri vedevano (…) tutto quel che ho amato, l’ho amato da solo”.

In un certo qual modo, questi grandi artisti segnati, in parti uguali, da una straordinaria brillantezza e dalla malattia, sono sempre stati consapevoli delle loro singolarità. Emily Dickinson arrivò a scrivere nel suo poema Sentivo un Funerale, nel Cervello, che la sua stessa pazzia era in realtà il senso più divino. L’elemento che le permetteva di scrivere e che le causava profonde sofferenze.

Emily Dickinson e l’emicrania

In primo luogo, bisogna precisare che Emily Dickison (come molte altre persone) non soffrì di una singola condizione psicologica. Furono più d’una, e spesso accompagnate da problemi fisici, organici, ecc. Nel caso della poetessa nordamericana, gli esperti credono che abbia potuto soffrire di episodi frequenti di emicrania.

“Come un tamburo – batteva – batteva – finché pensai che la mente si fosse intorpidita”.

Ansia sociale e agorafobia

Alcuni studiosi dell’opera di Emily Dickinson sostengono un’idea curiosa. Secondo loro, la scelta di isolarsi dal mondo, nella propria stanza, fu un modo per approfondire meglio il proprio lavoro. Tuttavia, dobbiamo tenere in considerazione anche diversi aspetti:

  • La sua reclusione fu totale. Non riceveva visite e non incontrava i suoi familiari pur vivendo nella stessa casa.
  • Preferiva comunicare con i fratelli e i nipoti attraverso la porta, quando possibile.
  • Mantenne una fitta corrispondenza con i suoi amici, ma non varcò mai la porta della sua stanza dopo i 30 anni.

I medici dissero alla famiglia che Emily soffriva di una malattia rara nota come “prostrazione nervosa”. Oggigiorno, la maggior parte degli psichiatri associa questi sintomi all’ansia sociale o a gravi forme di agorafobia.

Emily Dickinson foto

Emily Dickinson e il disturbo schizotipico di personalità

Il saggio di Cindie Makenzie, Wider Than the Sky: Essays and Meditations on the Healing Power of Emily Dickinson, afferma che la scrittrice usò la poesia per tenere sotto controllo la propria malattia. Fu sempre consapevole del suo disturbo e che quei demoni interiori, come li definiva lei, le offuscavano la ragione, i sensi e l’equilibrio.

“Ed io, e il Silenzio, una Razza estranea.
Naufragata, solitaria, qui.”

Steven Winhusen, dottore presso la Johns Hopkins University, ha condotto uno interessante studio su Emily Dickinson, arrivando a una conclusione molto interessante. (a suo parere) La famosa poetessa soffriva di disturbo schizotipico di personalità.

Per via delle informazioni dettagliate che trasmette nelle sue poesie, nel modo in cui la sua calligrafia si è deteriorata nel tempo, per i suoi pensieri, il bisogno di isolamento, il genio creativo e le emozioni che permeano i suoi versi, potrebbe, a suo dire, rientrare perfettamente in questa diagnosi.

Conclusioni

Emily Dickison morì il 15 maggio 1886 a causa della malattia di Bright. Una malattia renale che, curiosamente, causò anche la morte di Mozart. Fu sepolta nel cimitero della sua città, seguendo le linee guida che lasciò per riflesso nelle sue poesie: in una bara con fiori bianchi profumati di vaniglia.

La ragione del suo isolamento è e sarà sempre un enigma, un mistero fantastico, come le sue poesie. Il segreto è sepolto con lei nella tomba, ma al di là della sofferenza che senza dubbio ha patito in vita a causa dei suoi “demoni interiori”, la sua eredità ci giunge intatta. Di lei ci resta la sua ampia opera letteraria, così come le lettere brillanti, dotate di squisitezza e assoluta creatività.


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  • Maas, DF (2003). Reflexiones sobre la autorreflexividad en la literatura. Et Cétera, 60 (3), 313.
  • Winhusen, S. (2004). Emily dickinson y la esquizotipia. The Emily Dickinson Journal, 13 (1), 77–96.
  • Thomas, H. H. (2008). Wider than the sky: Essays and meditations on the healing power of emily dickinson. The Emily Dickinson Journal, 17(2), 113–116,124.

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