Ricadere nella depressione e ricominciare
Ricadere nella depressione implica un sentimento di frustrazione che terrorizza, spesso aggravato dal senso di colpa. I dati statistici ci dicono che è una situazione molto comune: circa l’80% dei pazienti che hanno sofferto di disturbo depressivo ricadranno in questo abisso a un certo punto nei 10 anni successivi.
Questa realtà incide soprattutto nel caso del disturbo depressivo persistente (distimia). I sintomi di questo disturbo, in generale, vanno e vengono per anni, variano di intensità e hanno una durata minima di due mesi. Come possiamo immaginare, la qualità di vita del soggetto è logorante e complessa.
Ciò costringe a prendere consapevolezza di un fatto ben specifico: ci mancano ancora gli strumenti necessari per affrontare i disturbi dell’umore. Una delle carenze che più percepiamo è quella sociale, che entra in scena, ad esempio, con la mancanza di informazione reale e specifica in merito a queste realtà cliniche.
Si continua a presumere che la depressione sia sinonimo di debolezza e di mancanza di carattere. Continuiamo, in un certo qual modo, a trascinarci dietro uno stereotipo negativo sui disturbi mentali. D’altro canto, c’è un altro elemento chiave che le istituzioni mediche dovrebbero tenere maggiormente in considerazione: prevenire il rischio di ricadere nella depressione.
Addio tristezza.
Buongiorno tristezza.
Sei scritta nelle linee del soffitto.
Sei scritta negli occhi che amo (…)
-Paul Eluard-
Ricadere nella depressione: cosa sta andando storto?
La depressione è un disturbo che richiede un approccio con effetti da medio a lungo termine. Essere dimessi dopo una terapia farmacologica o una volta concluse le sedute di psicoterapia non significa altro che aver messo un lucchetto a questa condizione. Essa continuerà a bussare alla nostra porta. La depressione in genere non scompare senza un rigido intervento, senza la volontà di miglioramento da parte del paziente o il sostegno intelligente del contesto sociale. In questo senso, i medicinali aiutano, ma non curano.
Nonostante i miglioramenti clinici, spesso molti pazienti presentano ancora i cosiddetti sintomi residuali. In cosa consistono queste prove camuffate che potrebbero forse indirizzarci a un rimedio? Uno studio condotto nel 2011 dall’Università di Dublino sull’incidenza e il decorso della depressione indicato quanto segue:
- In primo luogo, vi sono i sintomi residuali cognitivi. Si tratta di pensieri, atteggiamenti e schemi negativi mantenuti dai pazienti e che rendono difficoltosa la completa guarigione dal disturbo psicologico. Sono frequenti la mancanza di attenzione, la difficoltà nel reperire le parole, la complessità del prendere decisioni e il rallentamento mentale.
- D’altro canto, ci sono i sintomi residuali fisici, come la mancanza di energia e i disturbi del sonno.
Il nostro approccio mentale alimenta il rischio di ricadute
Quando ricadiamo nella depressione, sappiamo molto bene cosa ci aspetta: doverci sottoporre di nuovo a determinati trattamenti, consultare uno specialista, ecc… Tuttavia, dobbiamo averlo ben chiaro, più che di ricominciare, si tratterebbe di “riprendere da dove eravamo rimasti”.
In uno studio condotto dall’Università di Toronto da parte del Dottor Norman A. Farbher viene proposta l’idea che le ricadute siano dovute principalmente al nostro modo di pensare. Se continuiamo a nasconderci dietro l’impotenza, aumentano le probabilità di intrattenere un dialogo interiore critico e negativo, nonché il rischio di cadere in una nuova forma di depressione.
È significativo ricordare che questo tipo di approccio mentale è quasi come addentrarsi in mare con una zattera piena di buchi. Il pensiero negativo e debilitante ci sommerge, ci sfianca, ci sopraffà e ci rende incapaci di elaborare idee originali, utili e valide per navigare nel mare della vita. Questo dialogo interiore può persino arrivare a convincerci del fatto che non sappiamo nuotare. Allo stesso tempo, è comune che questi sintomi cognitivi finiscano col ripercuotersi a livello somatico: ci sentiamo senza energia, sfiancati, con dolori muscolari, con disturbi del sonno…
La terapia cognitiva basata sulla piena attenzione
Le ricadute della depressione richiedono necessariamente l’aiuto di un esperto. A nulla vale far vedere che non succede nulla, che sebbene ci sentiamo frustrati e sconfitti dentro, riusciamo comunque a lavorare, a sorridere quando tutti sorridono e ad andare a letto desiderando di sentirci meglio il giorno dopo. Questo può essere d’aiuto, ma non è abbastanza.
Sono molte le persone che vivono sulla propria pelle questa realtà senza chiedere aiuto. Altre, nonostante si sottopongano a psicoterapia, finiscono per abbandonarla tra il primo e il sesto mese. Non è l’ideale. Se vogliamo affrontare questo disturbo e, cosa ancora più importante, se vogliamo evitare le ricadute, la terapia cognitiva per la depressione, basata sulla piena attenzione, è una delle più efficaci.
Conclusioni: la terapia cognitiva per non ricadere nella depressione
Studi come quello condotto dal Dottor John D- Teasdale, a capo della ricerca presso l’Università di Oxford e, successivamente, del Dipartimento di Cognizione e Neuroscienze di Cambridge, si soffermano sui benefici di questo approccio terapeutico.
Pazienti affetti da almeno tre ricadute manifestano non solo un miglioramento, ma persino l’acquisizione di valide strategie per ridurre il dialogo interiore negativo, per controllare i pensieri e per mantenere abitudini di vita positive con cui prevenire nuove ricadute. Affrontare queste sfide mentali ed emotive è nelle nostre mani; se abbiamo deciso di stare meglio, facciamoci guidare dal senso di responsabilità e dalla determinazione. Vale la pena provarci.
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- Richards, D. (2011, November). Prevalence and clinical course of depression: A review. Clinical Psychology Review. https://doi.org/10.1016/j.cpr.2011.07.004
- Teasdale, J. D., Segal, Z. V., Williams, J. M. G., Ridgewaya, V. A., Soulsby, J. M., & Lau, M. A. (2000). Prevention of relapse/recurrence in major depression by mindfulness-based cognitive therapy. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 68(4), 615–623. https://doi.org/10.1037/0022-006X.68.4.615