La psicologia positiva e la sua vera rivoluzione

Poche branche della psicologia sono diventate famose come la psicologia positiva. Con essa abbiamo iniziato a prendere coscienza dell'importanza delle nostre emozioni.
La psicologia positiva e la sua vera rivoluzione
Sergio De Dios González

Scritto e verificato lo psicologo Sergio De Dios González.

Ultimo aggiornamento: 07 marzo, 2023

Poche branche della psicologia sono diventate famose come la psicologia positiva. Con essa abbiamo iniziato a prendere coscienza dell’importanza delle nostre emozioni. A un certo punto della storia occidentale, dopo il buio Medioevo, con l’illuminismo la ragione iniziò ad avere la meglio sulla fede. La logica degli illuministi elevò la scienza e ricordò che né la terra è il centro dell’universo né l’uomo è al centro della natura.

Nietzsche uccise simbolicamente Dio (“Dio è morto”, il che, paradossalmente, per quanto il tempo verbale lasci intendere questo, non significa che Nietzsche pensasse che Dio fosse effettivamente esistito). Thomas Hobbes affermò poi che il peggior nemico lo abbiamo in casa, con il concetto dell’homo homini lupus. Vale a dire che in qualche modo sarebbe meglio per l’uomo che la specie umana si fosse estinta.

Seguendo questo filo conduttore, morto l’uomo, indebolito, osservato con la lente di ingrandimento, come un granello di sabbia in un cosmo immenso, la psicologia volge lo sguardo ai nostri meccanismi più intimi: le emozioni. E, in effetti, il XXI secolo sembra essere il secolo delle emozioni; delle intelligenze multiple, è vero, ma soprattutto di quella emotiva. Quella che ci aiuta a lottare contro quel lupo che vive nelle persone che ci accompagnano, ma soprattutto contro quello che vive dentro di noi.

Due lumache una sopra l'altra

Uno sguardo diverso negli occhi della psicologia positiva

Forse il maggiore successo della psicologia è stato quello di aver dato una svolta a ciò che più ci assilla. Mi spiego meglio. Chiunque tra voi abbia studiato psicologia all’università -e, quindi, anche metodologia- ricorderà che uno dei peggiori mal di testa che possono colpire un ricercatore sono i casi atipici (outliers). Stiamo parlando di quei casi che si allontanano molto dalle aspettative, tenendo conto di diverse fonti, come gli stessi strumenti di studio o la letteratura.

Molti ricercatori li considerano una fonte di errore. Esiste, di fatto, un’enorme quantità di procedimenti statistici -non immaginate neanche quanto siano complessi- atti a far sì che questi valori interferiscano meno possibile con i risultati di uno studio. Una delle cause più spesso alla base di questi dati anomali, inattesi, è un errore di mediazione o di codificazione (quando si passano i dati al programma statistico).

Un esempio pratico

Facciamo un esempio. Immaginiamo che uno psicologo abbia eseguito un esame per misurare l’ansia di un campione di persone. Si tratta di 15 domande, a ognuna delle quali può essere attribuito un punteggio di 1 o 0, in modo che il punteggio massimo dell’esame sia 15. Tuttavia, una volta inseriti i dati al computer, ci accorgiamo che una persona ha ottenuto un punteggio pari a 113. Ovviamente questo è impossibile. La cosa più probabile è che ci siamo sbagliati nel trascriverlo.

In alcuni casi questa conclusione non è così evidente. Se avessimo trascritto un 11 anziché un 1, il dato in questione non avrebbe attirato la nostra attenzione: a primo impatto, non ci sarebbe stato alcun caso atipico. Facciamo un piccolo passo in avanti e complichiamo le cose: immaginiamo che tutte le persone tranne una abbiano ottenuto un punteggio tra 2 e 5. Eppure, la nostra persona atipica ottiene un punteggio di 14. Strano, vero?

Cosa farne di questo 14? Ebbene, come dicevamo prima, la statistica ha generato un numero enorme di soluzioni per il nostro valore atipico (pensate che, come diceva la mia stimata coordinatrice del corso di laurea, gli statistici vivono di questo) e lo ha fatto sia a livello univariato che a livello multivariato. La maggior parte di essi si muove verso una direzione: limitare il più possibile la loro influenza quando si tratta di fare confronti.

Aerei in cielo

Psicologia positiva: studiare la felicità dov’è presente, non dove manca

Giunti a questo punto, mettiamo da parte la metodologia per spiegare perché la cosiddetta psicologia positiva ha rappresentato una rivoluzione. Il suo oggetto di studio non sono stati i punteggi prevedibili, quelli che si aggiravano intorno alla media, bensì quei valori atipici così tanto sminuiti.

Quel che succede in fase di consultazione non sfugge a questa riflessione. Fate attenzione, perché spesso gli psicologi o il paziente/il cliente cercano di avvicinarsi alla normalità e questo significa avvicinarsi alla media.

Sì, mi direte che sto sbagliando, che la psicologia aveva già fatto tutto questo. Aveva già studiato quei pazienti che su una scala di ansia, ad esempio, ottenevano un punteggio molto altro. O chi, in fase di lutto, entrava in una depressione acuta. Quel che non aveva fatto in modo approfondito, tuttavia, era studiare i casi atipici “positivi”. Per esempio, coloro che dinnanzi a una situazione potenzialmente ansiogena manifestavano livelli moderati di ansia o coloro che guarivano in poco tempo dopo un evento potenzialmente traumatico.

La psicologia positiva ci ha detto: “eh bé, dobbiamo iniziare comunque a studiare quelle persone atipiche da un punto di vista che fino a non molti anni fa era stato ignorato: quello della salute, anziché quello della malattia, isolata per ridurre al  minimo l’errore”. Questo cambiamento, al tempo stesso, ha rappresentato un forte vento di speranza. Un modo per dire: abbiamo anche esempi che ci dicono che si può, che l’anomalo va ben oltre la malattia o la patologia, che ci sono anomalie che vorremmo fossero più comuni.

Dobbiamo studiare i soggetti straordinari, anziché eliminarli dalle statistiche. Proprio loro possono aiutarci a migliorare la media, perché hanno la chiave, conoscono il percorso per memorizzare meglio, per essere più calmi, più resilienti…

Reagiamo dinnanzi alle percezioni o dinnanzi alla realtà?

Una delle colonne portanti su cui si fonda la psicologia cognitiva è quella che sostiene che non reagiamo dinnanzi alla realtà, bensì dinnanzi a ciò che percepiamo.

La psicologia positiva in simboli

Se vediamo una tigre avvicinarsi e non rileviamo alcun ostacolo che le impedisca di lanciarsi su di noi, tendenzialmente entriamo in modalità panico. Eppure, questo non significa che quell’ostacolo non esista: la tigre può avere attorno a sé una catena che le impedisce di scattare verso di noi, tanto da rendere impossibile un suo attacco. Nonostante ciò, il nostro cuore inizia a battere con forza.

Lavorare su quanto percepito nel caso della tigre è un grande svantaggio. Tuttavia, la psicologia positiva ci dice possiamo volgere a nostro favore questa distanza, questo filtro che ci serve per elaborare ciò che giunge a noi attraverso i nostri sensi. Quante sfide avete affrontato con la sensazione che prima di iniziare fosse già tutto perduto? In quante sfide lo slancio iniziale vi è stato utile per superare gli ostacoli più complicati? Ebbene sì. Per chiudere il cerchio, sono proprio la psicologia positiva e le emozioni a renderci straordinari.


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  • Peterson, Ch. y Seligman, M. (2004). Character Strengths and Virtues: A Handbook and Classification. Oxford University Press.

  • Seligman, M. (2002). La auténtica felicidad. Ediciones B.


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