L’arte come rifugio e mezzo di comunicazione della sofferenza

L’arte come rifugio e mezzo di comunicazione della sofferenza

Ultimo aggiornamento: 21 aprile, 2017

Per Frida Kahlo, dipingere era un modo di trasformare il dolore in espressione artistica. Era il suo canale, il suo rifugio, la sua forma di libertà. Si rifiutò sempre di essere una vittima, capì da subito che non valeva la pena vivere la vita attraverso la sofferenza fisica. Per Frida Kahlo, la vita era soprattutto passione.

Se ammirate la sua opera La colonna rotta (1944), non potrete evitare che forti brividi vi attraversino il corpo. In questa tela, il simbolismo del dolore acquisisce più che mai un’intensità palpabile, fisica e quasi disperante. Tutti gli anni passati a sottoporsi a trattamenti e alle prese con gli apparecchi ortopedici sono rimasti registrati in quest’opera come una testimonianza; c’è un’esaltazione del corpo fisico come sinonimo di tortura.

“Piedi, perché li voglio se ho ali per volare?”

(Frida Kahlo)

La stessa Frida una volta spiegò di aver dipinto tutti quegli autoritratti perché si sentiva sola. Più che voler incanalare la sofferenza fisica, aveva bisogno di ritrovarsi con qualcuno per spiegargli come si sentiva, e quel qualcuno era proprio lei.

L’esempio di vita e di atteggiamento della celebre pittrice messicana ci dimostra un fatto concreto: la creatività è un mezzo, un meccanismo eccezionale capace di aiutarci a ristrutturare il dolore, a canalizzare la sofferenza e molto altro. Le terapie espressive come la pittura, la scrittura o la composizione sono anche un modo per ritrovare noi stessi, per prenderci cura di noi e recuperare la stabilità emotiva.

(La colonna rotta, 1944)

La sofferenza e l’artista tormentato

Spesso ci piace pensare che l’arte, per giungere all’apice dell’espressività e della genialità, abbia bisogno di una mente straziata e di un cuore ferito. L’archetipo del poeta tormentato e del romanziere che scrive freneticamente nelle sue notti di delirium tremens continua ad essere molto presente nell’immaginario collettivo.

“La nostra esistenza è soltanto un fuggevole spiraglio di luce tra due eternità di tenebre.”

(Vladimir Nabokov)

Tuttavia, oltre alla sofferenza, c’è una realtà psicologica che delinea in modo più profondo e delicato le personalità di questo tipo. Personaggi come Lord Byron, Edgar Allan Poe, Ernest Hemingway o la stessa Frida Kahlo sono il chiaro esempio di una caratteristica ben specifica: la passione. Nessuno di loro aveva una mente ordinaria. Con un’analisi dettagliata, ci renderemo conto che corrispondono perfettamente alla definizione di mente creativa di Howard Gardner:

  • La creatività è un atto solitario.
  • Le persone creative vanno oltre l’ordinario, il sistema, ciò che è logico o naturale per gli altri.
  • La mente creativa si prende dei rischi, osa.
  • Il suo potenziale creativo è intimamente legato al mondo emotivo.

(La notte stellata, 1889, Van Gogh)

La tristezza e il dolore invitano l’artista a ritrovare se stesso

Una delle definizioni più azzeccate di “creatività” ci viene offerta dal saggista Richard Luecke. Per questi, la creatività non è uno stato mentale né un fatto genetico, e neanche un costrutto associato al mero quoziente intellettivo. Si tratta di un processo di sviluppo e un mezzo di espressione orientati a risolvere problemi o, e qui sta la parte più interessante, a soddisfare necessità emotive.

La sofferenza è, senza dubbio, un catalizzatore per l’espressione artistica, ma lo sono anche la paura, la felicità o la rabbia. Tuttavia, il dolore trova nell’arte un rifugio assai catartico, laddove il soggetto può ritrovare se stesso, ascoltarsi, nuotare nei suoi abissi di incertezza e fondersi con i propri buchi neri per uscirne rafforzato e sollevato.

Sono un artista e so gestire bene le mie emozioni negative

Rufus Wainwright è un famoso cantautore canadese che nel 2010 pubblicò un disco (All Days Are Nights: Songs for Lulu) in cui lasciava intravedere, uno per uno, tutti i segni di sofferenza che stava provando in quel momento. Nei suoi concerti, si presentava vestito rigorosamente di nero e chiedeva al pubblico di non applaudire tra una canzone e l’altra.

“La sofferenza si può giustificare quando si trasforma nella materia prima della bellezza”.

(Jean-Paul Sartre)

Aveva appena perso sua madre e nella sua mente tiranneggiava ancora quel passato traumatico che si portava dietro dopo essere stato vittima di una violenza a soli 14 anni d’età. Oggi, dopo un matrimonio felice, la sua vita naviga in un oceano emotivo molto più tranquillo, maturo e sicuro. Tuttavia, non c’è chi rinuncia a chiedergli se la felicità attuale non gli impedirà di scrivere belle canzoni come in passato.

Rufus Wainwright

Wainwright è molto chiaro su quest’aspetto. Sa molto bene che quando si parla di sofferenza, non c’è un prima e un dopo, soprattutto quando si ha a che fare con traumi infantili. I demoni ballano sempre con noi, non scompaiono mai del tutto. Quello che succede è che arriva un momento in cui scegliamo se essere per sempre vittime o se darci il permesso di essere felici, anche se dobbiamo continuare a convivere con quel ricordo.

Nelle composizioni di Wainwright, una buona parte della tristezza del passato è rimasta immutata, è presente perché fa parte di lui, perché è uno spezzone di quel respiro che alimenta la sua creatività. Tuttavia, anche la felicità attuale è un grande stimolo per le sue opere. Perché mai il cantautore dovrebbe rinunciare o negare uno di questi aspetti?

Le persone sono una complessa combinazione di emozioni contrapposte, di luci e ombre. È fondamentale non arrendersi, proprio come non ha fatto Frida Kahlo; dobbiamo individuare una passione e renderla nostra per trovare un rifugio, un catalizzatore, con cui dare al mondo il meglio di noi e, allo stesso tempo, prenderci cura del nostro universo emotivo.


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