L'effetto Lazzaro: una nuova visione della morte

L'effetto Lazzaro: una nuova visione della morte

Ultimo aggiornamento: 26 maggio, 2015

I progressi della biologia e della medicina ci hanno messo di fronte a diversi paradossi. Mai come ora, l’uomo ha avuto un’aspettativa di vita così elevata. Allo stesso tempo, però, mai come al giorno d’oggi il concetto di morte è stato tanto relativizzato. Nemmeno gli scienziati e gli studiosi sanno mettersi d’accordo per darne una definizione.

Le procedure per prolungare la vita in modo artificiale sono diverse e hanno sollevato dibattiti etici sulla convenienza e il modo di utilizzarle. Oltre a questo, sono frequenti i casi di persone che sembrano morire e poi “resuscitano” o riattivano tutte le loro funzioni corporee, senza alcun danno per l’organismo.

Cosa sta succedendo?

Il momento della morte

Fino a qualche decennio fa, una persona veniva dichiarata clinicamente morta quando cessava la circolazione. Era risaputo che la morte cellulare avesse bisogno di più tempo, ma dopo 20 minuti senza alcun segno di vita, si stimava che la persona fosse ufficialmente morta.

Ora le cose sono un po’ cambiate. Prima il lasso di 20 minuti era una verità quasi assoluta. Si pensava che in caso di attacco di cuore, il cervello smettesse di ricevere ossigeno per 20 minuti e che quindi la morte fosse imminente. Iniziarono, però, ad aumentare i casi di persone che restavano per più di quattro ore con il cuore fermo, ma che, nonostante questo, “ritornavano alla vita” con il cervello illeso.

All’inizio si trattava di eccezioni che si potevano contare sulle dita di una mano. Con il tempo, però, sono stati registrati nuovi casi in tutto il mondo. Al momento non esiste una statistica esatta, ma si sa che è un fatto che si verifica in meno dell’1% dei casi.

La domanda da un milione di euro è: quanto affidabili sono questi numeri? Quante persone sono “morte” solamente perché non hanno ricevuto assistenza dopo la scomparsa dei segni vitali? Non sono domande di poco conto e la scienza non riesce ancora a definire con precisione la soglia che segna il passaggio tra la vita e la morte.

Le ipotesi

Fino ad oggi, il dibattito si restringe principalmente ai casi in cui la morte implica danni al cervello o al cuore. La prima conclusione potrebbe essere che un attacco di cuore non è sinonimo di morte e che in questo caso bisogna valutare con estrema attenzione se c’è stato effettivamente o meno il decesso.

Il professor Sam Parnia, direttore del Reparto di rianimazione presso l’Università Stony Brook, a New York, afferma di conoscere casi di persone che sono state dichiarate clinicamente morte e che dopo cinque ore sono ritornate a vivere in condizioni completamente normali. Segnala anche che le tecniche di rianimazione devono essere eseguite correttamente per far sì che l’organismo torni alla normalità.

Parnia è convinto che, dopo l’attacco cardiaco, il cervello entri in un processo che può essere chiamato “di ibernazione”. È come se si auto-proteggesse dalla morte e riducesse al massimo la sua attività, in attesa che ritornino le condizioni migliori per riattivarsi.

Nel suo libro “ The Lazarus Effect: The Science That is Rewriting the Boundaries Between Life and Death“, il professor Parnia rivela che la riattivazione del cervello è un momento pericoloso ed ha bisogno di una particolare gestione. Parnia ha eseguito con successo un metodo che consiste nell’abbassare la temperatura dei pazienti in modo che il cervello portasse a termine il suo processo lentamente e non collassasse nell’intento.

Probabilmente la morte non è più ciò che era e la scienza è in ritardo nel darci una nuova definizione.

 

Immagine per gentile concessione di natalia_maroz.


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