Test delle associazioni verbali di Jung

Il test delle associazioni verbali di Jung può innescare risposte fisiologiche ed emotive in grado di rivelare la presenza di traumi nel paziente.
Test delle associazioni verbali di Jung
Valeria Sabater

Scritto e verificato la psicologa Valeria Sabater.

Ultimo aggiornamento: 15 novembre, 2021

Il test delle associazioni verbali di Jung è uno dei test psicologici più interessanti. Si basa sull’idea che il nostro inconscio sia capace di assumere, talvolta, il controllo della volontà cosciente. In questo senso, una parola può innescare l’evocazione di traumi passati o portare alla luce un conflitto interiore irrisolto.

Questo strumento è stato ampiamente utilizzato per decenni ed è stato anche applicato a contesti diversi. Tuttavia, va segnalato che si tratta di un test proiettivo. E in quanto tale, se utilizzato in maniera esclusiva, non ha di per sé un valore diagnostico affidabile. Deve essere associato ad altre risorse, altri test e interviste per giungere a conclusioni chiare e corrette.

L’esperimento o test delle associazioni verbali fu formulato a metà del XX secolo da Carl Gustav Jung, con un obiettivo molto chiaro: svelare l’inconscio. Comprendere le sue manifestazioni e fornire i canali adeguati per leggere, comprendere e infine portare alla luce quei problemi che limitano la libertà e il benessere del paziente.

La tecnica non potrebbe essere più semplice. Alla persona viene presentata una parola-stimolo alla quale dovrà rispondere con il primo termine che gli viene in mente. Si intende che questi concetti di stimolo tendono a risvegliare quasi sempre una specifica carica emotiva.

Dall’altra parte, il terapeuta dovrà leggere le risposte fisiche ed emotive che in seguito interpreterà, una volta terminato il test delle 100 parole. Nonostante il test abbia più di un secolo, recentemente le neuroscienze hanno fornito delle prove a supporto delle sue premesse.

Il test delle associazioni verbali di Jung: obiettivi, caratteristiche e applicazione

A prima vista potrebbe sembrare poco più di un gioco: il terapeuta dice una parola e il paziente risponde con la prima cosa che gli viene in mente. Ebbene, dietro a questa dinamica non vi è solo la risposta alla parola evocata. Deve essere interpretata anche la reazione fisiologica. Il test delle associazioni verbali di Jung si basa pertanto su un ampio tessuto teorico che vale la pena di conoscere.

La mente conscia e i punti salienti

Carl Gustav Jung all’inizio della sua carriera lavorò nella clinica psichiatrica Burgh Ölzli dell’Università di Zurigo, sotto la direzione di Eugen Bleuler. Ricordiamo che all’operato di quest’ultimo si devono molti dei concetti che usiamo attualmente nel campo della psicologia clinica e della psichiatria.

In questo contesto, Jung iniziò a studiare i processi che accompagnano i traumi e i complessi. Secondo lui, un modo per capirli e portarli alla luce poteva avvenire attraverso i sogni, l’immaginazione attiva o la fantasia. Ogni giorno, nella pratica con i pazienti, si rendeva sempre più conto che alcune parole ed espressioni fungevano da stimolo per l’inconscio.

Un modo per favorire l’attivazione, per entrare in contatto con l’universo psichico dei traumi, delle paure e dei conflitti poteva avvenire tramite l’evocazione di un insieme di parole chiave. Per comprovare questa teoria ideò il Word Association Test (WAT) o test delle associazioni verbali di Jung.

Persona nuvola

Come si applica?

Una cosa che lo stesso Jung chiarì fin dall’inizio è che questo test non è adatto a tutti. Alcune persone possono presentare un’eccessiva resistenza allo stesso, che non prendono sul serio; altre non possiedono un uso adeguato della lingua (per questioni d’età, comprensione o altri problemi neurologici, deficit evolutivi, ecc.)

  • Il test consiste nel presentare al paziente 100 parole-stimolo.
  • A ogni parola, la persona deve replicare velocemente e automaticamente con la prima cosa che le viene in mente.
  • Il terapeuta annoterà il termine evocato e prenderà in considerazione anche altri fattori. Come il tempo di risposta, il disagio, l’espressione facciale, la postura, il silenzio,  la ripetizione o meno da parte del paziente della parola-stimolo.

Affidabilità del test delle associazioni verbali di Jung

Jung si rese subito conto che questo strumento era adatto ai gruppi familiari. Con esso era possibile osservare modelli di risposta simili, identificando così l’origine di molteplici problemi.

Fu però lo stesso Jung, qualche tempo dopo, ad abbandonare il test e il suo interesse per il campo sperimentale della psichiatria. Più tardi sarebbero nate le sue teorie sull’inconscio collettivo o sugli archetipi.

Tuttavia, questo test è stato utilizzato fino al 2005, anno in cui è decaduto drasticamente. Attualmente viene impiegato solo nei programmi di terapia junghiana e come tecnica proiettiva complementare in alcuni processi terapeutici.

Uomo davanti al cervello

Ebbene, nel 2013 il Dr. Leon Petchkowsky ha svolto un interessante studio sull’argomento. Ha dimostrato mediante risonanza magnetica che le parole del test di Jung generavano risposte neurologiche rivelatrici nelle persone. In risposta a parole come padre, famiglia, abuso, paura, bambino, ecc., si attivavano i neuroni specchio.

Inoltre si riscontravano attività in aree come l’amigdala, l’insula, l’ippocampo, ecc. I risultati erano evidenti anche nelle persone con stress post-traumatico. Tutto questo ci mostra come le parole evocano emozioni, ricordi e quei frammenti che spesso scegliamo di non considerare.

In tal senso, sebbene il test delle associazioni verbali di Jung continui a ricevere critiche, rimane comunque una risorsa interessante e supportata da diversi studi.


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  • Jung, Carl Gustav (2016). Obra completa de Carl Gustav Jung. Volumen 2: Investigaciones experimentales. Estudios acerca de la asociación de palabras. Traducción Carlos Martín Ramírez. Madrid: Editorial Trotta.
  • Petchkovsky, Leon (2013) “Las respuestas de la IRMf a la prueba de asociación de palabras de Jung: implicaciones para la teoría, el tratamiento y la investigación”.  The Journal of Analytical Psychology,  2013,  58 (3) , 409-431.

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