The Whale, un profondo ritratto della depressione

"The whale" è un film che affronta il complesso universo dell'autodistruzione, della fede, dell'amore, ma anche della paternità, della religione e dei nostri errori del passato. Prima di tutto però è un ritratto nudo e crudo della depressione. Analizziamolo.
The Whale, un profondo ritratto della depressione
Valeria Sabater

Scritto e verificato la psicologa Valeria Sabater.

Ultimo aggiornamento: 20 marzo, 2023

“Chi potrebbe volere che io faccia parte della loro vita?” Questa semplice ma devastante frase inquadra una delle percezioni più ricorrenti del protagonista dell’ultimo film di Darren Aronofsky. Pochi registi sono così abili nel fare emergere in superficie in modo così palpabile emozioni e tormenti umani. Prova di ciò è “Il cigno nero” o “la Madre”. The Whale è un film che racconta una tragedia racchiusa tra quattro mura dove i brividi sono una sensazione costante.

La solitudine è intrisa e la tristezza è quella nebbia che ci accompagna in modo quasi soffocante per tutta la produzione. Solo lo sguardo incontaminato di Brendan Fraser, imprigionato tra infiniti strati di grasso fornisce quel punto di assoluta tenerezza in mezzo a tanta desolazione emotiva.

Siamo di fronte a un ritratto audiovisivo di visione quasi obbligata sull’abbandono. Inoltre, come le nostre decisioni, aggiunte al comportamento del nostro ambiente, possono portarci a situazioni drammatiche. È un film in cui i personaggi secondari sono importanti quanto la figura principale per comprendere la tela di una storia che potrebbe svolgersi in migliaia di case solitarie.

“Oltre a questo, ho bisogno di sapere se mia figlia avrà una vita decente. Una in cui si prenderà cura delle persone e in cui le altre persone si prendano cura di lei. E ho bisogno di sapere che starà bene. Ho bisogno di sapere che ho fatto una cosa giusta nella mia vita!”

-The Whale-

scena di balene
Gli errori di paternità sono uno degli assi principali su cui si muove il film “The Whale”.

The Whale, una cruda storia sui nostri fallimenti

Questo film basato sull’opera teatrale di successo di Samuel D. Hunter colleziona riconoscimenti da pubblico e critica sin dalla prima proiezione, ha vinto numerosi premi e ben 3 Oscar. Una delle sue principali attrattive è il ritorno di Brendan Fraser, che, attraverso il suo volto e la sua voce, apporta una sensibilità imbattibile a questa creazione.

L’attore si mette nei panni di Charlie, un insegnante di inglese che tiene lezioni virtuali ai suoi studenti con la telecamera spenta. È patologicamente obeso, vive in isolamento a casa e consuma abbondanti quantità di pizza, pollo fritto, frappè e patatine fritte. Il regista ci avvicina a quei momenti così da catturare ogni dettaglio di quel corpo immenso in un atto quasi morboso.

Ci trasforma in autentici guardoni di quella casa disordinata e di quell’uomo ingombrante per scoprire qualcosa. Il cibo per molte persone non ha uno scopo nutrizionale, è un meccanismo di costrizione e autodistruzione. A questo punto, non smettiamo di chiederci cosa ci sia sotto quel tentato annientamento e quelle tonnellate di solitudine.

La prigione del corpo e il dolore della vita

La vita di Charlie ruota attorno alle sue lezioni, al cibo spazzatura, al porno gay e alle visite della sua unica amica e infermiera, Liz. Al di là del suo fisico imponente, scopriamo presto l’eco di quella storia di vita che lo ha portato a questa situazione. Questo insegnante di inglese ha amato la vita anni fa, e l’ha amata attraverso uno dei suoi studenti, per il quale non ha esitato a lasciare la sua famiglia.

Purtroppo quel giovane finì per togliersi la vita e quel suicidio, sommato all’accusa di coscienza per aver abbandonato la figlia, lo ha indotto all’autodistruzione. Il cibo è la sua catarsi e il suo corpo è la prigione che incapsula la sofferenza, ponendolo su un costante precipizio verso la morte. Solo Liz, sorella del suo partner scomparso, cerca di convincerlo a cercare assistenza medica.

Tuttavia, come quasi sempre accade nei casi di obesità patologica, l’imbarazzo sociale e la paura del rifiuto lo fanno rifuggire da ogni ambito clinico.

La ricerca della redenzione

The Whale è un film che si svolge nel corso di una settimana. Durante quel periodo Charlie riceve la visita di diversi personaggi, tra cui un uccello che, metaforicamente, lo osserva sempre da dietro la finestra. Incontreremo un singolare missionario che vuole salvarsi l’anima, ma che giudica la sua sessualità e un fattorino della pizza che ha Charlie come suo miglior cliente.

Scopriamo anche la sua ex moglie, che lotta contro l’alcolismo. Queste figure eterogenee orbitano attorno a Charlie come satelliti, mostrandoci che hanno tutti a che fare con la sua oscurità tagliente come un rasoio. Ma tra tutto quel caleidoscopio di presenze che entrano in quella casa lugubre spicca quella di Ellie. Sua figlia è un’adolescente piena di rabbia e disprezzo nei confronti del padre per averla abbandonata.

Ad eccezione di Liz, nessuna delle figure intorno a Charlie è amichevole e quell’arazzo di sentimenti ci rende ancora più claustrofobici. Charlie simboleggia quel gigante su una montagna di desolazione che guarda il mondo con il suo sguardo gentile. In effetti, una parola che gli sentiamo pronunciare spesso è “scusa”.

Il suo odio per se stesso contrasta con la tenerezza con cui si rivolge a ciò che lo circonda, in particolare a sua figlia. Non esita a scusare il suo cattivo carattere, la tratta con infinito affetto e cerca solo di riscattarla, darle speranza affinché la sua rabbia non la isoli dal mondo come ha fatto lui.

Charlie pensa che nonostante l’odio e il disprezzo che vive in sua figlia Ellie, ci sia ancora speranza per lei. C’è ancora la possibilità che diventi una brava persona.

La performance di Brendan Fraser porta grande convinzione e sensibilità a un personaggio che soffre di depressione e obesità patologica.

The Whale e la metafora della depressione

The Whale è un’epopea emotiva che delinea una forma di depressione strato dopo strato. Charlie è ossessionato da un piccolo lavoro letterario che qualcuno vicino a lui ha fatto sul libro di Herman Melville, Moby Dick. Conosciamo la paternità di questo saggio alla fine.

Tuttavia, la metafora della balena ci riporta al modo in cui Melville la descrive nel suo libro: un essere gigantesco, una creatura triste e priva di emozioni. Soffrire di depressione è come diventare creature che trasportano immense tonnellate di tristezza navigando in oceani solitari. Il dolore è tale che, finalmente, non si sente più niente, solo il desiderio di fuggire, di lasciarsi sprofondare negli abissi.

D’altra parte, non possiamo dimenticare che Darren Aronofsky si diletta nel mostrarci le complessità della fede e della religione. Nella Bibbia la figura della balena è anche quell’essere che inghiotte le persone che non erano degne di salvezza, come Giona. Charlie vive con la ferita della sua coscienza per non aver dato il meglio di sé a coloro che amava di più.

La “balena” è simbolo di tutto ciò che nascondiamo sotto la pelle della tristezza e del fallimento vitale, e che finisce per distruggerci.

L’empatia per le persone stigmatizzate non è sufficiente

Questo film è il riflesso più crudo di problemi mentali, sessualità, crepacuore, intolleranza religiosa ed errori genitoriali. Tuttavia, qualcosa che ci riporta indietro come riflessione è la nostra incapacità di prenderci veramente cura degli altri.

È vero che il personaggio di Charlie suscita la nostra empatia, così come qualsiasi persona socialmente stigmatizzata. Tuttavia, teniamo presente che non è sufficiente provare empatia emotiva perché qualcuno capisca e sia d’aiuto. Sentirsi dispiaciuti per qualcuno non li salva. Nemmeno sapere cosa c’è dietro l’obesità patologica è sufficiente.

Dobbiamo smettere di essere spettatori della sofferenza degli altri per diventare agenti attivi per coloro che hanno bisogno di comprensione, aiuto e cambiamenti nella loro vita. Nella nostra società, ci sono molti Charlie che navigano da soli attraverso i loro deprimenti oceani.


Questo testo è fornito solo a scopo informativo e non sostituisce la consultazione con un professionista. In caso di dubbi, consulta il tuo specialista.