Musica triste: perché ci piace ascoltarla?

Perché ci piace la musica triste? C'è qualcosa di magnetico e attraente nelle canzoni come Tears in Heaven di Eric Clapton o in Hallelujah di Leonard Cohen. Ma cosa?
Musica triste: perché ci piace ascoltarla?
Valeria Sabater

Scritto e verificato la psicologa Valeria Sabater.

Ultimo aggiornamento: 11 ottobre, 2022

Perché ci piace ascoltare la musica triste? C’è qualcosa di magnetico e attraente nelle canzoni come Tears in Heaven di Eric Clapton o in Hallelujah di Leonard Cohen. Si tratta di un’emozione musicale che, lungi dal sopraffarci o dal causarci malessere, risveglia i nostri sentimenti più intimi, fermando il mondo, lasciandoci navigare nell’introspezione del nostro Io…

Non sbagliamo dicendo che nella lista delle canzoni di maggiore successo ce n’è sempre qualcuna dalle sfumature malinconiche. Un esempio così unico quanto interessante è quello della cantante inglese Adele. La sua carriera musicale si basa su quella quintessenza, su quella tristezza, su quel profumo permanente in cui la delusione, le rottura, l’angoscia e la solitudine pervadono le parole, come quelle della più che famosa Hello.

Siamo masochisti? Perché ci piace tanto ascoltare Everybody Hurts dei REM e tutti quei titoli che ascoltiamo in loop anche quando siamo noi a passare un brutto momento? Lo stesso Aristotele già a suo tempo affermava che la musica ha il dono di liberare. In questa idea primordiale egli stava già anticipando quello che oggi conosciamo come “catarsi emotiva”, quel meccanismo mediante il quale ci permettiamo di esternare sentimenti, sensazioni ed emozioni complesse.

Nessuno è immune dagli effetti della musica. Il cervello ne è affascinato. Inoltre, studi come quello condotto dall’Università McGill, in Quebec, guidato dalla neuropsicologa Valorie Sampoor, spiegano che l’attività neuronale in aree come il nucleo accumbens (associato alle ricompense) sarebbero la prova che la musica è importante per l’essere umano quanto lo è il cibo o quanto lo sono le relazioni sociali.

Perché niente è paragonabile,

niente è paragonabile a te.

Sono stata così sola senza di te,

come un passero che non canta.

Niente può fermare queste lacrime solitarie che scendono giù,

Dimmi, tesoro, dove ho sbagliato?(…)-

-Sinéad O’Connor. Nothing compares 2 U

Sinead O Connor

Ci piace ascoltare musica triste perché il nostro cervello ne ha bisogno

Gli intenditori di musica triste sostengono che una delle canzoni più toccanti della storia sia Nothing compares 2 U, interpretata da Sinead O’Connor e scritta da Prince, nel 1985. La musica, il testo e un volto femminile che piange in primo piano entrano quasi subito nelle profondità del nostro cervello emotivo. Quasi impossibile non rimanere folgorati da un’infinità di sensazioni, da sentimenti che portano con sé i nostri ricordi del passato, immagini con cui identificarci.

Il fatto di “trarre piacere” proprio dalle emozioni tristi sembra quasi una contraddizione. Proprio questa premessa (o questo dilemma) è stato il punto di partenza per uno staff di psicologi, musicisti, filosofi e neurologi dell’Università di Tokyo, che hanno deciso di condurre una serie di studi di ricerca al riguardo. I dati sono stati pubblicati sulla rivista Frontiers in Psychology, e non avrebbero potuto essere più interessanti. Vediamoli in dettaglio.

Le canzoni tristi producono in noi emozioni positive

Alla maggior parte di noi piace la musica triste, lo sappiamo. Tuttavia, c’è qualcosa che tutti abbiamo potuto verificare: dopo aver ascoltato una playlist malinconica, non stiamo male. Vale a dire, non ci sentiamo sopraffatti da quel malessere, da quelle sconfitte, da quel dolore causato da una rottura, da un tradimento. Quello che proviamo dopo l’ascolto -fatto curioso- sono benessere, sollievo, tranquillità.

Giovane ascolta musica triste

Una delle ricercatrici coinvolte in questo studio, la dottoressa Ai Kawakami, esperta in musica ed emozioni, sottolinea la necessità di distinguere l’emozione vissuta dall’emozione percepita o indiretta. La musica ha la capacità di farci percepire emozioni di questo ultimo tipo: entriamo in contatto con esse, ma “non ne soffriamo”. Vale a dire, non le proviamo con la stessa intensità di quando è la vita stessa a colpirci con un destro, con un evento inaspettato e desolante.

Le canzoni tristi hanno la curiosa qualità di entrare in connessione con le emozioni più profonde per poi uscire indenni da esse. E non solo questo: emerge in noi una sensazione di benessere.

Le canzoni tristi ci vaccinano a vita

Leonard Cohen diceva che ogni volta che interpretava la canzone Hallelujah di Jeff Buckley provava un’emozione di speciale. Era come trovare l’equilibrio in un mondo caotico, come cercare la riconciliazione nel conflitto. Così, uno dei motivi per cui ci piace la musica triste è perché ci inietta un po’ di pace, delle gocce di introspezione e delle pennellate di catarsi emotiva.

Leonard Cohen

Questo tipo di musica è un vaccino che ci difende dalle difficoltà della vita. In effetti, facciamo ricorso a essa come facciamo con i libri che ci raccontano storie drammatiche, come quando scegliamo di vedere un film dalla trama triste, ma che ci lascia sempre un insegnamento. La magia delle emozioni indirette generate da queste dimensioni è genuina e incredibilmente utile.

Queste esperienze artistiche ci liberano dalle emozioni reali, quelle più cruenti e dolorose, che così spesso ci paralizzano in condizioni affatto piacevoli. Ci piace la musica triste perché ci permette di entrare in contatto con il nostro Io emotivo, in un modo più sicuro e, ovviamente, più bello. Attraverso i testi, possiamo tornare a momenti del nostro passato, piangendo per essi, liberandoci dal loro peso e tornare al presente privi di graffi.

Possiamo persino lasciarsi trasportare dalla bellezza della musica e del testo per empatizzare con l’artista, godendo di un istante di intimità in cui camminare attraverso questo universo alieno, pieno di profonda tristezza. A prescindere da tutto, ne usciamo sempre confortati, pronti per affrontare la nostra giornata con un temperamento più forte.


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